“Ho fatto il necessario per sopravvivere“. È questa la giustificazione che dà Dolores ai suoi omicidi, alla sua mancanza di morale ed empatia. Sopravvivere in Westworld diventa l’imperativo dominante, l’unica cosa che sembra contare. La scusante per perpetrare ogni male, ogni imposizione violenta, ogni prevaricazione.
Ma sopravvivere non è vivere davvero. Sopravvivere significa trascinarsi stancamente, mostrare i denti davanti al pericolo, rispondere alla violenza con violenza. Sopravvivere non conta nulla se non si trasforma in vivere. E così Dolores, nonostante la sua mente geniale, l’incredibile mole di dati e conoscenze che ha immagazzinato non riesce a capire. Non arriva a comprendere una semplice ma inspiegabile cosa: l’affetto, la volontà di protezione, il rispetto e l’amore.
In una parola: non arriva a comprendere l’uomo.
Il suo è un piano di sopravvivenza in cui uccidere è il modo per non venire uccisi. Distruggere l’uomo significa preservare la sua specie o, meglio, sé stessa. Perché Dolores non si fida e non difende nessun altro se non sé stessa. Anzi, come dimostra sfruttando le sue copie, non è interessata neanche a proteggere la sua stessa essenza. C’è un solo Io e un solo credo: sopravvivere, a ogni costo.
Ma, anche nella sua natura, nella natura di ogni essere, umano o host che sia, c’è una scintilla, un barlume che dà speranza. Una possibilità. Questa eventualità in Dolores si manifesta attraverso Charlotte. I circuiti, le conoscenze, la personalità sono quelli di Dolores ma molto presto si fa largo qualcosa di diverso. Una divergenza, un cambio di rotta rispetto al suo scopo. Come la Dolores originale si era sottratta allo scopo per la quale era stata programmata in Westworld, così la sua copia con le sembianze di Charlotte inizia a maturare una scissione.
È un disturbo pruriginoso, un bipolarismo che la cambia dall’interno. Dolores-Charlotte inizia ad amare e il suo scopo non diventa più sopravvivere ma far sopravvivere. E così in questa apertura all’altro trova umanità. Sofferenza, senso di protezione, maternità: non è più un “io” ma un “noi”. Quello stesso amore materno muove anche Maeve ma il confine tra vivere e sopravvivere anche per lei è estremamente labile. E rischia costantemente di tramutarsi in violenza e crudeltà.
C’è freddo calcolo nella sopravvivenza.
C’è una logica instintuale, un impulso primordiale che contrappone la vita alla sopravvivenza. Così è per Serac che sceglie arbitrariamente di preservare l’umanità nel solo modo in cui la sua logica, la logica di un supercomputer, gli dice sia possibile: garantire la sopravvivenza attraverso la selezione, attraverso l’eliminazione del divergente.
E così l’emarginato, il diverso viene ghettizzato, confinato in un limbo in cui sopravvive senza esistere più. Rinchiuso e isolato dal mondo non può diffondere il suo morbo pestilenziale, la sua originalità tanto pericolosa. Muore così l’arte che è follia, la maestosa bellezza dell’imprevedibilità umana, la straziante scissione che vive dentro l’uomo.
Perché viviamo quando soffriamo. Quando ci chiediamo chi siamo. Quando ci aggiriamo, folli, per il mondo e ci ripieghiamo insignificanti sotto il peso della nostra debolezza. Cosa sarebbe il mondo senza il dolore di Van Gogh? Cosa senza la follia di Dostoevskij? Cosa saremmo senza i nostri tarli mentali, il nevrotico, inconsistente, incomprensibile male che ci assale d’improvviso senza apparente motivo?
Saremmo impulsi e bisogni: pura sopravvivenza.
Non vita ma vuoto grigiore. Così è il mondo di Westworld, dominato dalla gabbia di un sistema che soffoca la diversità, che uccide la pericolosissima vitalità della follia umana. La divergenza è il pericolo maggiore per la sopravvivenza ma nello stesso tempo l’unica cosa che renda la vita davvero preziosa. L’ologramma di Serac in questa 3×07 di Westworld afferma orgoglioso: “Gli spigoli sono stati smussati“.
È la stessa, violenta espressione che avevamo trovato nel primo episodio di questa terza stagione, riferito a Caleb. “Credo che gli spigoli siano l’unica cosa a cui mi aggrappo“, aveva controbbattuto il ragazzo. Caleb vive come prodotto a uso e consumo del sistema, è riconvertito, “aggiustato”, il suo errore sembra corretto. Il file della sua anima non è più corrotto. Uno su dieci “guarisce”, afferma Solomon, il prototipo di Rehoboam.
Ma l’uomo non può guarire davvero da sé stesso. Può ricacciare tutto dentro, seppellire la propria umanità, negare sé stesso. Può farlo e glielo si può imporre. Ma la sua natura più profonda sarà sempre lì, pronta ad affilare nuovamente gli spigoli, a tornare prepotentemente a tormentarlo nel dolore e nella follia. Ma anche nella felicità e nell’amore per l’altro.
E così in Caleb, già da tempo, si è risvegliata l’umanità.
Caleb si mette in viaggio. Alla ricerca di autenticità in un mondo sintetico e vuoto. Per la macchina lo scopo è solo sopravvivere, continuare il suo “run”, il suo funzionamento. E per farlo segue la logica più stringente: “Queste proiezioni non erano conformi ai dati, così i dati andavano cambiati“, dice Solomon. I “dati” sarebbero gli uomini. Sarebbero persone, vite, emozioni, sofferenze. Saremmo noi.
Ma per un computer sono solo dati. Numeri fluttuanti in un universo di variabili da interpretare. Codici binari da mettere uno dietro l’altro per trarne una logica e una regola. E chi non rientra nella regola è l’errore di sistema che va isolato in quarantena come un virus o, se possibile, eliminato. Così il mondo si trasforma in una prigione al pari di Westworld. E al pari di Westworld l’uomo divergente, l’host che presenta un malfunzionamento, viene ritirato: “Hanno costruito un posto come questo per la mia specie, dove ti mandavano se ti ribellavi“, nota Dolores.
Scopriamo così che il mondo non è altro che una variante del parco di Westworld, l’ennesima gabbia che tiene prigionieri i suoi abitanti. Gli uomini si trasformano allora in host programmati per uno scopo, con un cammino prestabilito da Rehoboam.
Non c’è spazio per la diversità, non c’è spazio per la dissonanza, per l’autenticità.
Se Solomon afferma come un gerarca nazista che “Eliminare gli emarginati dalla popolazione garantisce che non si riprodurranno“, l’uomo risponde che preferisce morire, venire meno al suo scopo primario, alla sopravvivenza, pur di essere sé stesso. Perché non ha senso sopravvivere se non può vivere davvero. Se non può essere la versione più autentica, folle, innamorata e malata di sé stesso. Se non può essere uomo vero.
Bisogna somigliarsi un po’ per comprendersi, ma bisogna essere un po’ differenti per amarsi
Paul Géraldy