«Bring yourselves back online.»
«Tornate in linea.»
C’è un’arma seppellita nel deserto. C’era nella prima stagione, con la Chiesa che ha rappresentato per William e Dolores il centro del labirinto, metafora di un antefatto che diventa sinonimo di coscienza, surrogato di realtà che diventa un passato (seppur mai vissuto) e dà vita a una propedeuticità esistenziale. C’è un’arma seppellita nel deserto, quel deserto che torna a essere panorama primario di una Westworld più vicina ai picchi della sua prima stagione di quanto lo sia mai stata, quasi fosse nuovamente colorata d’oro.
Seppellito – e non solo nella polvere – è stato anche Bernard, o meglio lo è stata la sua coscienza. Il suo viaggio (anche se uno è solo quello che vedremo, risultato della pluralità di esiti espletati prima e resettati poi) è quanto di più simile al noto esperimento teorico del “cervello in una vasca” ideato da Hilary Putnam nel 1981.
Immaginate che uno scienziato estragga il cervello dal vostro corpo e lo immerga in una vasca contenente un liquido nutritivo, il cui scopo sarebbe mantenere attive le funzioni neurali. Ora immaginate che questa vasca sia collegata a un computer in grado di generare e indurre direttamente al cervello gli stessi impulsi che normalmente sarebbero processati dai sensi (immagini, sensazioni), rendendo superflue le funzioni corporee. Rendendo superfluo, anzi, il corpo stesso.
Bernard è quel cervello nella vasca privato della speculazione filosofica, epurato dell’illusione cartesiana che riduce l’esistenza al solo pensiero, e il Sublime di Westworld è quel mondo “fatto di fatti” e non di cose, quello generato da un cervello in una vasca. Il ritorno di Bernard non apre solo un nuovo arco narrativo e una nuova pista di rette temporali che alimentano nuove teorie (ci arriveremo, tra poco), ma rafforza la già familiare sensazione limbica che questa quarta stagione sia un elegante rientro della filosofia di Robert Ford. Non è un caso, infatti, che sia proprio il personaggio a lui più legato a riportare la narrazione a uno stato metaforico che fa del viaggio e dell’azione – quella più cruda e a tratti laconica, non quella asettica e pretestuosa del mondo tecnologico della terza stagione – un “violento” strumento di ricerca interiore (“These violent delights have violent ends”).
Lo stesso mezzo che è stato effigie del congedo di Ford, l’annuncio di una “nuova narrativa” che ha origine dalla caotica libertà, dal deragliamento deterministico delle macchine e che scopriamo ora essere ironicamente diventata (realmente) una narrativa nel nuovo parco: “il massacro di Westworld”. Torna quindi il metalinguaggio, così come tornano le domande e con esse le timeline e le teorie associate, tornano i parchi e la loro deliziosa referenzialità – e autoreferenzialità, ormai – che induce al vero dilemma originale: senza regole, fin dove è in grado di spingersi l’uomo (e le macchine)? Torna, finalmente, Westworld.
A tornare potrebbero essere perfino le linee temporali, appunto, e dopo questo episodio potrebbero essersene delineate ben tre: la prima sarebbe quella con protagonisti Maeve e Caleb, e si posizionerebbe in un’epoca in cui Halores (Charlotte Hale/Dolores) dà il via al suo piano per schiavizzare la razza umana utilizzando le mosche, ancora in fase di test; la seconda, che vede protagonista Christina, andrebbe a collocarsi immediatamente dopo la riuscita del piano di Halores, la quale controllerebbe gli umani con le mosche (da qui i comportamenti apparentemente incontrollati delle comparse nella New York di Christina), dopo aver trasformato il laboratorio nella famigerata “Torre” la cui funzione si presume sia legata al corretto svolgimento di controllo delle mosche, e aver istituito la Olympiad, la compagnia in cui lavora Christina addetta alla creazione di narrative per gli esseri umani; la terza, quella con i ritrovati Bernard e Stubbs, rappresenterebbe un futuro in cui vige una sorta di Resistenza, formata dalle persone che vivono nel deserto, tra cui la donna che i due incontrano lungo la strada e che li porta con sé alla ricerca dell'”arma seppellita nel deserto”.
Se questa struttura narrativa dovesse trovare conferma, la donna che Bernard e Stubbs incontrano (data anche la chiara somiglianza) potrebbe essere Frankie, la figlia di Caleb ancora bambina nella prima linea temporale, la cui indole sovversiva troverebbe una certa coerenza narrativa nella sovrapposizione dei due personaggi, soprattutto se l’ultima scena dell’episodio che vede Caleb sopraffatto dalle mosche dovesse significare la scomparsa – per anni? – dello stesso. Questo risvolto narrativo porterebbe Frankie, sua figlia, a diventare quella parte della Resistenza nel deserto in cerca di un rimedio (quell’arma nel deserto, che potrebbe perfino essere una ormai “perduta” Maeve?), o addirittura di vendetta se il destino di Caleb dovesse rivelarsi definitivo come accennato dalle visioni di Maeve nel primo episodio.
In tutte le alternative che costituiscono il tabulato armonico di Westworld, quel concetto teosofico della ricerca della verità attraverso un oggetto (la cosiddetta “arma”, appunto) diventa nuovamente protagonista con quella sorta di ricerca da cultura totemica indiana, che non poteva essere introdotta da nessun altro se non da Akecheta, il nobile androide mosso da quella curiosità di cui l’aveva sapientemente condito Ford, perché giungesse alla sua dissolvenza nel bianco lattiginoso che è sia nascita che risoluzione degli androidi, attraverso il Sublime.
All’androide trasceso, non più diviso in volto dal giorno e dalla notte, spetta il compito di riportare in Westworld la mano divina di Ford, e i riferimenti biblici che vestono le scene di cui è protagonista sono tanti. A partire dal cavallo bianco che nel libro dell’Apocalisse rappresenta proprio quel dualistico dubbio vita/morte, condottiero giusto o pestilenza, o la stessa frase di Akecheta: “un anno nel mondo reale è un millennio nel Sublime”, tributo biblico al verso “un giorno equivale a mille anni per Dio”, che sottolinea il concetto più volte ribadito degli androidi che divengono divinità nel Sublime.
C’è un’arma seppellita nel deserto, sotto granelli di introspezione e roventi raggi di dolorosa consapevolezza. In uno scenario di dolori dipinto in codici, c’è il centro di un labirinto che confonde tanto quanto la realtà. Bernard adesso riavvolge a preveggenti passi quel cammino fatto di ricordi.
Quella raccolta di eventualità che hanno creato un passato, una consapevolezza. Quella che dentro la vasca non siamo solo cervelli, ma coscienze.