«Bring yourselves back online.»
«Tornate in linea.»
A un uomo sdraiato a contare le stelle non importa sapere quante ve ne siano realmente. Come la certezza di una risposta suggerita dal cielo, così è bugiarda la perfezione. Nell’affresco terso di una realtà matematica, il dubbio è timido ma anche salvifico. Il dubbio. Quell’araldo del cambiamento, prologo della metanoia, nobile pretesto necessario a ognuno dei protagonisti di questo penultimo episodio di Westworld 4.
Per metanoia si intende il repentino “cambiamento trasformativo” del proprio giudizio, del proprio pensiero. Del proprio essere. Messaggero di questa filosofia non è soltanto il titolo della 4×07 di Westworld, ma anche quel soffocante 16/9 che apre la puntata e che mette lo spettatore inconsciamente sull’attenti, pronto a essere ingannato senza sapere perché. Quel restringimento dello schermo, quella metaforica filigrana della realtà è l’espediente narrativo che abbiamo imparato a conoscere nella seconda stagione di Westworld, e che ci suggerisce anzitempo che Bernard e Maeve si trovano nella Forgia, in una delle plurali verità di Bernard. Qui avviene il primo cambiamento, ma ancora non lo sappiamo.
La missione di Bernard e Maeve è ora scandita dall’allargarsi di quella crepa in apnea nello spazio, di quella cicatrice nel vento che si erge sulla Diga, e che rappresenta l’apertura verso il Sublime. La metanoia di Maeve, la sua scelta catartica, è ciò che permette la riuscita dell’unico scenario positivo previsto da Bernard, della “strada” al bivio presa solo da chi cambia. Da chi dubita della perfezione di un conteggio infinito che si spaccia per finito. A lungo ha dubitato Bernard, per 25 anni spettatore e giudice di un mondo screpolato che ambisce al male minore, ed è nel sereno nichilismo della domanda di Akecheta che egli trova la sua metanoia, il senso del sacrificio: “adesso hai capito a cosa porterà tutto questo?”.
Se la metanoia di Bernard è una riflessione incagliata nei capricci del tempo, quella di Cristina/Dolores è una vera e propria trasformazione fisica, prodotto di un atto violento: quello della “fusione” con Rehoboam nel finale della terza stagione. Quel vento che scaldava i pensieri della mattina lascia il posto a un risveglio brusco per Cristina, in questa 4×07, prodromo di quella che sarà la più sublime forma di dubbio, in un parallelismo sacrificale con la presa di coscienza di Bernard: quel tentativo di annegamento che diventa la cartina di tornasole di un mondo sbiadito, un mezzo non richiesto. La maledizione della serendipità. Dolores, l’androide che aveva impresso nel suo nome l’assonante ironia del dolore che nasce dal proliferante dubbio del suo creatore Arnold (il cui riferimento che vi fa William al momento della morte di Bernard è l’ennesimo richiamo a una genesi narrativa), ora è riflessa in uno specchio dal quale Cristina cerca continuamente risposta come un bambino che oggettiva se stesso, mossa appunto dal dubbio. Tormentata dall’inutilità di un mondo dominato dalla perfezione.
Nell’abbandono delle lealtà affettive, riemergendo da una vita scavata nei bordi di una provincia grigia, prende vita invece la metanoia che dà senso figurativo a questo episodio di Westworld: quella di Halores. La tanto agognata perfezione di un mondo dominato dalle macchine risuona, nelle fredde pareti del suo cervello di perla, come una religione obsoleta per Halores, che con l’iperrealistico cinismo di un algoritmo perfetto decide di riporre il suo vecchio giocattolo e chiudere i parchi. Chiudere, letteralmente, il mondo. Col termine dell’esistenza al fine di trascendere, la parabola di Halores è l’evoluzione di una metanoia dai tratti biblici, la fine di un’utopia il cui ius naturale è l’assenza di conflitto di esseri privi di materia, caricamento astratto a una forma di vita che si manifesta solo nella ragion pura.
A questa evoluzione si oppone “l’uomo che ha venduto il mondo” (una delle rare volte in cui questa serie ci propone una canzone in versione originale, è per decretarne la poetica pertinenza, stavolta con The Man Who Sold the World di David Bowie appunto), quello che non hai mai smesso di partecipare al darwiniano gioco dei violenti piaceri.
Il lupo che non ha mai realmente lasciato il parco di Westworld: William. Amoreggia col dolore il lupo ferito di Westworld, che fluido e impercettibile rinasce col dubbio – quello della sua versione host – e ripercorre il filo di lana lasciatosi alle spalle lungo un labirinto che è diventato grande quanto il mondo. Non è importante l’uomo che muore nella vasca, diceva Christopher Nolan attraverso le parole del Grande Danton di The Prestige, bensì quello che riemerge dalla botola.
La civilizzazione è solo una bugia che raccontiamo a noi stessi per giustificare il nostro reale scopo. Non siamo qui per trascendere. Siamo qui per distruggere.
– Men in Black/William
Così William fluisce ed evolve a macchina imperitura, annulla la prova della sua caduca esistenza umana, e ristabilisce “un ordine naturale” che autentica l’uomo come malvagio, lupo per l’altro uomo. Imperfetto e insicuro ostacolo per l’insicura imperfezione del prossimo. Così il sorriso un po’ sadico, un po’ stupito del William che viene sparato nella rivolta degli host per opera di Ford – nel finale della prima stagione – fa il giro sul quel volto ora esanime e torna a chiudere il più grande inganno, il più trascendente prestigio frutto del dolore del conflitto. Quello che si oppone alla perfetta pace sintetica di Halores. Quello dell’uomo che è morto per comprare il mondo, ed è rinato per rivenderlo alla natura della sua specie.
Tuttavia c’è solo una la pedina che nel suo sacrificio, nella sua metanoia, resta sopraelevata alla casualità degli eventi: Bernard. Perfino l’epifania di William appare come un passo di una coreografia scritta dall’onnisciente versione host di Arnold, la stessa che accorda con linee d’aria le lacrime di momenti attesissimi come il ricongiungimento tra un immutato Caleb (host) e una turbata Frankie. Bernard è al corrente del conflitto che porterà William a uccidere Halores, Maeve e perfino lo stesso Bernard, stavolta in maniera apparentemente permanente (essendo state distrutte le loro perle), in un’operazione epocale in termini narrativi e metanarrativi, con la possibile perdita di tre figure di rilievo nel cast originale di Westworld.
Eppure Bernard non esita, ha avuto 25 anni per esitare. La sua visione si ritrae di sfumato, così come le sue possibilità dipinte nei 16/9 della Forgia, mentre annuncia l’inizio di una nuova narrativa, quella che comincia col suo consapevole congedo dalla vita. Come il suo vecchio amico Ford prima di lui. Al di là di ogni ebbrezza, in Bernard alberga un ricordo. Più profondo del sangue che non lo scalda, e del cuore che non ha bisogno di battere. Bernard si fida del suo passato. Si fida di Arnold.
Al Bernard morente sdraiato a contare i suoi scenari non importa sapere quanti ce ne siano realmente. Perché è nel dubbio che induce al cambiamento, nella metanoia, che l’uomo cesserà di essere lupo per l’uomo.
E la macchina cesserà di essere una gabbia del pensiero.