“Il popolo, e solo il popolo, è la forza motrice che crea la storia del mondo.”
Lo diceva Mao Zadong, orgoglioso di aver aperto il sipario della sua rivoluzione.
A due tempi, sia per dottrina che per interpreti, questo non può non essere il manifesto lampante della seconda stagione di Westworld.
Qui il palcoscenico veste i tratti di un futuro abbastanza remoto da patinare una critica sociale sempre più evidente; eppure il leitmotiv è lo stesso.
Per gentile concessione di Sky, abbiamo avuto la fortuna di analizzare i primi cinque episodi che compongono il secondo atto dell’opera HBO ideata da Jonathan Nolan e Lisa Joy, e proprio il simbolismo marxista è parso immediatamente preponderante.
Il “proletariato” che giunge al potere, seguendo un iter spirituale, sradicando i cardini di convenzioni e pulsioni indotte, utili a fornire soltanto una parvenza di interazione e coesione, ma che nella realtà dei fatti inducono nell’inconsapevole (nel caso degli host di Westworld) spirale di alienazione.
Letta in questi termini, la seconda stagione di Westworld sembra non essere più lo spauracchio che i fan temevano di ritrovare sul dorato e giacente percorso lungo il vecchio west; questa diventa, anzi, una naturale conseguenza di ciò che sembrava “un’attrazione” ben congegnata sin dall’inizio: la prima stagione è totalmente ridimensionata con effetto retroattivo, e finisce per acquisire una percezione perfino “elementare” in quella che sembra una scala di categorie utili ad arrivare a una metafora sempre più universale.
I primi cinque episodi della seconda tranche ci mostrano come è possibile fare riferimento e citazionismo con delicato stile (prerogativa mantenuta dalla prima stagione), alimentando l’indagine teoretica con dosi di azione visibilmente rincarate, le quali riescono a fornire un ritmo accomodante senza togliere profondità e, soprattutto, senza mai approdare nel superficiale, facendo così fronte alle critiche dei pochi in merito alla progressione “lenta” della prima stagione.
Come da definizione marxista, il passato può divenire futuro solo se c’è lotta di classe, ed è questa lotta il core code della seconda stagione di Westworld, portata avanti quasi seguendo iconografie storiche, con (guarda caso) due decise e autoritarie donne a capeggiare la rivolta: Dolores e Maeve.
A livello attoriale sono proprio queste due ad avere maggior adito di esprimersi: per quanto ancora possibile, Evan Rachel Wood e Thandie Newton hanno perfino alzato il livello della loro performance, grazie alle necessità di sceneggiatura e ai lunghi indugi della camera, ferma su primi piani di monologhi particolarmente espressivi.
Il secondo episodio dal punto di vista stilistico e il quarto dal punto di vista narrativo sono indubbiamente le pietre pregiate di questa prima metà di stagione.
Quest’ultimo in particolare è uno splendido tassello che avrà, senza dubbio, un’enorme incidenza sulle teorie legate alla seconda fase della narrazione, pur mantenendo un’affascinante struttura quasi autoconclusiva. Come fosse il concept di The Prestige, questa parte “banalmente” con una promessa, continua con la svolta per poter terminare con un gravoso prestigio.
Non mancano i salti tra le linee temporali che, se stavolta non potranno avere il privilegio di fungere da colpo di scena fine a sé, saranno le rughe di sentiero intrecciate sapientemente per nascondere la verità.
Sarà la struttura narrativa il vero Labirinto di questa nuova Westworld.
Tra gli espedienti meglio riusciti c’è l’ossimoro metanarrativo: in conformità col nuovo stato di coscienza degli host, la sceneggiatura giocherà sarcasticamente sulla consapevolezza di questi nel trovarsi dentro una storia, contestando e sciorinando le loro stesse battute e i loro stessi ruoli nella trama, riuscendo a rompere la quarta parete senza mai farlo realmente in termini pratici.
Senza mai rivolgersi al pubblico “in sala”.
L’universo di Nolan e Joy sta pian piano allargando i confini, mettendo solo in vetrina straordinarie possibilità che hanno inizio con un mero sguardo fugace.
È per questo che, se mi chiedessero cos’è questa seconda stagione, non seguirei Nolan.
La nuova Westworld non è una “porta”.
In ciò che ci lasciano intravedere questi episodi non ci si può addentrare (non ancora, almeno).
Ci è consentito sentire il profumo di ciò che la serie conta di essere, ma non ci è ancora concesso l’assaggio.
La seconda stagione di Westworld somiglia tanto più al davanzale di una finestra sul prolungamento di un mondo che nasconde gelosamente i propri confini, vestendosi di infinito.
Somiglia a una veranda sul verde. Molto simile a quella dalla quale tutto è iniziato.
Quella alla quale Dolores poteva affacciarsi, guardando altrove ma essendo condannata a non poter mai andare oltre.