«Bring yourselves back online.»
«Tornate in linea.»
“When the violence causes silence, we must be mistaken. […]
In your head, in your head they are dying. What’s in your head?” (Dolores O’Riordan, Zombie)
È facile andare.
Perdersi tra i nebulosi confini della curiosità, procedendo senza guardare dietro.
Cercare il centro di un labirinto come fosse un non-luogo di solo arrivo, dimenticando che all’andata segue sempre un (eterno) ritorno.
A un certo punto, però, l’imprudente cavallo bianco ricorda che esiste uno scopo, dietro i chilometri percorsi senza gomitolo di lana.
Allora realizza che la vera difficoltà sta nel tornare.
Chiedersi “what’s in your head”, indagare sulle ragioni che inducono alla violenza, e cercare una via di fuga.
Chiedersi cosa sia stato reale e cosa no.
Così Westworld riavvolge le note del pianoforte a rullo, e costringe a riprendere la strada a ritroso per uscire dal Labirinto, e ritrovare la Porta.
Cos’è la realtà?
Il quesito che accompagna il ritorno di Westworld è analizzato su tre diversi livelli, in un episodio che sembra volontariamente rompere l’attesa con l’immersione imminente e prolifica nell’indagine filosofica.
Se lo domanda Arnold, al colloquio con Dolores, in una timeline a noi già abbastanza nota grazie alla rivelazione dell’identità di Bernard nella prima stagione; se lo chiede anche la stessa Dolores, mentre apostrofa il suo nuovo ruolo dinanzi al terrore dei suoi ostaggi; e infine Maeve, nel serioso confronto con Sizemore.
What’s in your head, Arnold?
Per Arnold, la realtà è “tutto ciò che è insostituibile”.
Così prova ad accomodare il confuso pensiero della sua creatura, Dolores, posta in perfetta simmetria di fronte a lui, in un faccia a faccia reso armonico dai primi piani e con movimenti di camera che sembrano quasi intercedere tra le intenzioni dei personaggi e le aspettative dello spettatore.
È la divisione tra ciò che è necessario e le sue conseguenze a caratterizzare la figura di un Arnold in contraddittorio conflitto interiore, incoraggiato da una visione della realtà identitaria, quasi wittgensteiniana.
Una divisione che è sagoma speculare della presentazione del nuovo Bernard, il quale apparirà sin da subito “diviso” tra ciò che è (o crede di essere) e il ricordo di se stesso.
La prima apparizione di Bernard in riva al mare sembra partire già tronca, come fosse l’attimo di una storia che non ha passato.
Per diverse ragioni, viene facile pensare che quanto vediamo coinvolgere Bernard in questa timeline possa essere finzione, una sequenzialità ripetuta; una nuova narrativa.
Prima tra tutte il luogo di inizio: laddove Ford ha presentato la sua nuova storia (“Journey Into Night”, che corrisponde al titolo stesso dell’episodio) prima del congedo definitivo, si risveglia Bernard privo di memoria, e conoscerà Karl Strand, un incaricato della Delos a riparare le conseguenze del disastro.
Nel momento in cui i due staranno per stringersi la mano, la frase di Karl Strand (“mi dispiace che le circostanze del nostro incontro non siano delle migliori”) verrà conclusa sottovoce da Bernard, come a dimostrare di sapere già cosa avrebbe pronunciato il suo interlocutore.
Bernard, quindi, potrebbe aver già vissuto più di una volta quanto vediamo sull’isola, trovandosi a vivere e rivivere il nuovo gioco di Ford.
Un ulteriore indizio a favore della tesi possiamo riscontrarlo nel trailer della seconda stagione: nel frame che segue ci vengono mostrate ben tre riproduzioni di Bernard, una accanto all’altra.
Questo apre possibilità non solo sul fatto che più Bernard abbiano rivissuto quella che sarebbe la nuova narrazione di Ford, ma anche sul ruolo di Charlotte e in particolare su ciò che vediamo nella linea temporale che include quest’ultima.
La linea dovrebbe succedere la sera del disastro al “Gran Galà” di Ford, e comincia nel fienile.
In ogni sequenza, Charlotte sembra quasi “accompagnare” Bernard in quelle che sembrano “fasi” di gioco.
Particolarmente indicativa è la scena in cui verranno uccisi i superstiti del fienile, caduti nella trappola degli indigeni.
Senza alcun dubbio, qui Bernard realizzerà essere una trappola quasi fosse una reminiscenza, e la reazione di Charlotte sembrerà plastica.
Nel momento in cui Bernard esclama “it’s a trap”, Charlotte osserva con occhio curioso più che stupito, come a studiare in che modo questi riconosca e “ricordi” il percorso.
Successivamente, Bernard esiterà dichiarando di non poter più proseguire, in quanto bloccata l’unica via di accesso alla base di controllo. Come a dover necessariamente intervenire sul corretto svolgimento del viaggio, Charlotte rivelerà di conoscere un’altra strada.
Gli indizi più suggestivi verranno fuori nell’ultima sequenza della timeline, quando i due arriveranno alla base di controllo.
Poco prima che l’inquadratura indugi sugli stivali di Charlotte (la quale a inizio sequenza, al fienile, indossa invece un paio di scarpe classiche, il che potrebbe confermare ulteriormente il fatto che tale percorso sia ripetuto più volte, se vogliamo escludere che si tratti di un semplice cambio di scarpe off-screen), Bernard ha una crisi.
È durante i concitati momenti in cui Bernard cerca di rimettersi in sesto, che il computer elencherà una serie di “errori” legati al sistema dell’androide: tra questi, viene nominata la “prosopagnosia”, un deficit della percezione che riguarda il sistema nervoso.
Questo consiste nell’impossibilità da parte del soggetto di riconoscere i tratti distintivi del volto.
Tale disfunzione (elencata dal computer tra quelle manifestate in quel momento) potrebbe non essere propriamente legata alla crisi, bensì presente in maniera latente dal primo momento in cui Bernard mette piede nella sala e incontra i “droni bianchi”, figure dalle quali sembra essere particolarmente intimorito.
Come conferma l’immagine di sopra, esistono più riproduzioni di Bernard.
I “droni bianchi” potrebbero essere nient’altro che le altre copie di Bernard, che quest’ultimo non può riconoscere come tali in quanto “non può vedere ciò che lo danneggia”, e da qui il riscontro del disturbo elencato dal computer: la prosopagnosia, ossia l’incapacità di riconoscere le sue copie e di conseguenza vederli come “droni bianchi”.
L’intera linea di Bernard è accompagnata da un sonoro che inghiotte, un suono grave e convesso che sembra pulsare con ritmo cadenzato fino alla rivelazione del twist finale: Bernard “li ha uccisi tutti”.
Sull’azzurra distesa di un mare che da mappa non avrebbe dovuto esserci, giacciono i corpi di centinaia di host. Bernard focalizza il suo sguardo su uno in particolare, che parrebbe essere Teddy.
Per compiere il genocidio del quale si autoaccusa, Bernard potrebbe aver utilizzato la stessa “rete a maglia” di cui parla nella sala di controllo, quando illustra a Charlotte il metodo che utilizzerà per rintracciare “il pacco”, Peter Abernathy.
La violenza di Bernard è inconsapevole, e imprudente come l’innocenza ha generato un doloroso silenzio sul quale è ora costretto a poggiare incredulo lo sguardo.
Incapace di capire cosa sia “reale” e cosa no.
What’s in your head, Maeve?
Quella di Maeve è una storia dai tratti mitopoietici, che si differenzia dalle altre per quanto più “umana” nell’angoscia del desiderio, e più eroica nel soddisfacimento di quest’ultimo.
La realtà, per Maeve, risiede nell’esistenza di un passato che giustifichi le proprie emozioni.
È reale la sua rivolta nella misura in cui lo sono le ragioni che l’hanno provocata, che corrispondono in questo caso al sentimento che precede la scelta.
Indipendentemente dal fatto che essa si riveli il tratto di penna su un libro già scritto.
Maeve è la prevalsa della determinazione sul determinismo, ed è per questo che diventa l’unico personaggio in grado di entrare nello schema metanarrativo più ilare e ambiguo che Westworld è in grado di proporci.
Per lo stesso motivo, questa è in grado di empatizzare con le disgrazie degli altri host come da spettatore onnisciente, riempendo di “significato” ogni reazione.
Per Maeve, il secondo che segue il presente diventa irrilevante al cospetto dell’hic et nunc.
La sua empatia la condurrà, man mano, a un ribaltamento dei ruoli che è apicale nella scena in cui costringe Sizemore a spogliarsi totalmente, per vendicare la vergogna della nudità alla quale l’uomo ha sottoposto le creature che ha sempre, erroneamente, creduto “sue”.
Nella spirale di eternità che è condannata a vivere, quante volte può resuscitare non è più importante delle volte che è costretta a morire.
Non conta, perché nella sua testa “they are dying”.
What’s in your head, Dolores?
Dolores è puro velluto rivestito d’acciaio, e così la sua idea di “realtà”.
La commovente volontà di cavalcare il futuro, senza avere idea di cosa sia il passato.
Più di ogni altro host, Dolores sembra costretta in una sequela di azioni che non le appartengono, anche alla luce della sua nuova rivendicazione (“Un nuovo ruolo. Me stessa”).
È forte ora, quasi più decisa di Maeve, ma la sua indolenza al corso degli eventi è evidente, naturale “solo” quanto un’opera teatrale riuscita magistralmente. Come una menzogna che hai ripetuto più volte a te stesso, e che diventa un crinale a ridosso della verità.
La sua visione della realtà traspare nel momento in cui esorta i suoi ostaggi a riflettere su una “resa dei conti” ultima.
– «Hai mai messo in dubbio la natura della tua realtà? Hai mai riflettuto sulle tue azioni? Il prezzo che dovresti pagare alla resa dei conti? La resa dei conti è arrivata.»
Anche la nuova Dolores converte il suo pensiero di realtà in termini “umani”, decidendo di non credere alla mortalità come un fatto proprio.
Decide (o forse è la storia scritta per lei da Ford a deciderlo) che la mortalità nel mondo reale è un’illusione tanto quanto lo è in Westworld.
Impone a se stessa di non credere in una deadline come unico reale conforto, di scongiurare il pensiero epicureo che ti vede “assente” nel momento della resa dei conti.
Ora che non sente più il peso della colpa, Dolores spera che la morte possa essere affrontata da “vivi”, per mettere in dubbio e poi riconoscere la natura della propria realtà.
Dolores chiede ai suoi ostaggi di guardare dentro se stessi, e inneggia alla speranza che la scelta giusta rinasca nel ricordo di un errore.
Nel Settembre del 1994, un’altra Dolores chiedeva cosa ci fosse nelle nostre teste.
Proponeva una domanda che, come la violenza, provoca imbarazzante silenzio.
Sperava ci si interrogasse su cosa fosse reale.
Non lo abbiamo ancora capito: ecco cos’è la “realtà”.