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Woman of the Hour – La Recensione di un true crime con una priorità: il rispetto delle vittime

Woman of the Hour
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ATTENZIONE! La recensione contiene SPOILERS del film Woman of the Hour

“I don’t date much. I don’t date at all, actually.”

“But you decided to go to a dating game”

Potrebbe sembrare l’inizio di una brillante rom-com con protagonisti Kate Hudson e Matthew McConaughey e invece si tratta di un’agghiacciante storia di cronaca nera raccontata in The Woman of The Hour (disponibile sul catalogo Netflix qui). Se pensate che il confine tra fantasia e realtà sia ben definito e netto, la vicenda del dating game killer e della donna che lo scelse in televisione vi farà ricredere sulle vostre convinzioni.

Nel 1987 andava ancora in onda, negli Stati Uniti, un programma di successo chiamato “The Dating Game” (in Italia era conosciuto come “Il Gioco delle Coppie”). Durante le puntate, una giovane single doveva porre diverse domande a tre scapoli e decidere, senza vederli fisicamente, quale dei tre meritasse di uscire con lei. Una sorta di appuntamento al buio in formato televisivo. Proprio nel 1987, Cheryl Bradshaw partecipò al programma senza sapere però che, tra gli scapolottini dietro il paravento, si nascondeva in bella vista uno spietato serial killer: Rodney Alcala.

Rodney Alcala è stato uno dei più noti serial killer della storia degli Stati Uniti.

In molti lo hanno paragonato a Ted Bundy (su di lui potete recuperare questo documentario), per il carisma con cui si presentava al mondo oltre che per la violenza perpetrata nei confronti delle donne. I primi crimini di Rodney Alcala iniziarono nel 1968, quando adescò una bambina di soli 8 anni, Tali Shapiro, promettendole un passaggio in auto. Alcala la condusse nel suo appartamento a Hollywood, dove la violentò e tentò di ucciderla. Tuttavia, un passante notò la scena e avvertì la polizia, che riuscì a salvarla. Nonostante questo, Alcala riuscì a fuggire prima che gli agenti potessero arrestarlo e si rifugiò a New York, cambiando identità.

Nel corso degli anni ’70, continuò a compiere crimini orribili in diversi stati degli Stati Uniti, attaccando prevalentemente giovani donne e ragazze. L’elemento più disturbante del suo modus operandi era il fatto che Alcala spesso fotografava le sue vittime prima di ucciderle. Alcuni di questi scatti furono ritrovati in suo possesso durante il processo e mostrano il volto delle sue vittime poco prima della loro morte, un dettaglio che ha sconvolto l’opinione pubblica e gli investigatori.

Il serial killer venne arrestato nel 1979 dopo che le prove raccolte sugli omicidi di diverse donne, tra cui Robin Samsoe, una ragazzina di 12 anni scomparsa in California, portarono alla sua identificazione.

Nel corso degli anni successivi, il processo contro Alcala divenne uno dei più complessi della storia giudiziaria americana. Nonostante fosse stato condannato alla pena di morte, il caso venne riaperto più volte a causa di errori procedurali. Ma infine nel 2010 l’uomo venne nuovamente condannato. Durante il processo, l’assassino, che si difese da solo, mostrò un comportamento bizzarro, interrogando se stesso al banco dei testimoni con una voce distorta per simulare il dialogo tra avvocato e imputato. Fu condannato per l’omicidio di cinque donne, ma le autorità sospettano che il numero reale delle sue vittime possa essere molto più alto. Forse arrivando a oltre 130.

In Netflix's "Woman of the Hour," three bachelors vie for a bachelorette's hand, including, from left, Matt Visser as Bachelor #1, Jedidiah Goodacre as Bachelor … Show more Leah Gallo/Netflix
immagini di Netflix

Il debutto alla regia di Anna Kendrick copre alcuni degli omicidi più efferati del serial killer (ecco 8 documentari da vedere su Netflix). Fino al momento della sua cattura nel 1979. La scelta della Kendrick appare molto chiara. Piuttosto che focalizzarsi, infatti, sulla figura del killer in se e per sé, l’attrice decide di porre il focus su alcune delle donne che, in maniera più o meno diretta, ne sono state vittime. E, soprattutto, sceglie di mettere al centro della vicenda colei che gli è sfuggita.

Il soprannome “The Dating Game Killer” deriva dalla sua partecipazione al famoso programma televisivo “The Dating Game” nel 1978, raccontato in Woman of the Hour.

Alcala, che all’epoca aveva già ucciso diverse vittime, riuscì a presentarsi come un affascinante e carismatico concorrente. Vinse addirittura la puntata, ma la donna che lo aveva scelto, per sua fortuna, decise di non uscire con lui a causa della sua stranezza. Come la stessa regista ha affermato in alcune interviste, i riflettori nel film sono tutti puntati su Cheryl. Il film lascia poco spazio alle intenzioni o alla psicologia di Alcala, che diventa così comprimario della sua stessa storia. Cheryl, invece, è la vera protagonista. Capiamo le sue intenzioni, le sue scelte e la decisione di voler abbandonare Hollywood e il sogno di diventare attrice. L’incontro con Alcala, che costituisce buona parte del film, è il segnale definitivo che la spinge a fare marcia indietro e tornare a casa. Prima che qualcosa di terribile possa accadere.

Proprio lei è d’altronde la woman of the hour, ovvero la donna del momento. Colei che, senza saperlo fino in fondo ma soltanto in maniera inconscia, è sfuggita allo spree maniacale di un serial killer senza alcuna pietà.

Contrariamente ad altri serial killer, come Jeffrey Dahmer, che mantennero un profilo basso per molto tempo per non essere catturati dalla polizia, Alcala decide addirittura di partecipare a un programma tv. Disconnessione dalla realtà? Arroganza? Sprezzo del pericolo o forse l’istinto inconsapevole di voler essere catturato? Non lo sapremo mai. Tutto quel che sappiamo è che la partecipazione a The Dating Game gli è valso il soprannome con cui è stato bollato e ha di certo segnato l’inizio della fine per lui. Durante la puntata Alcala appare sicuro di sé, spavaldo. Cheryl, nella finzione così come nella realtà, è attratta dalle sue risposte e lo incorona vincitore. Ma già da subito qualcosa non torna. Rimasta da sola con lui, la donna si rende conto di strani comportamenti e attenzioni indesiderate che la spingono ad allontanarsi il più in fretta possibile.

una scena con I protagonisti di Woman of the Hour al programma televisivo

In Woman of the Hour, Anna Kendrick debutta alla regia con una storia sconcertante.

Tanto assurda da essere vera. La racconta senza soffermarsi mai più del necessario sulla violenza fisica, senza indulgere in un voyerismo becero. No, la Kendrick decide di raccontare la storia del killer senza metterlo al centro della vicenda. L’attenzione è tutta rivolta alle sopravvissute, a coloro che sono riuscite a sfuggirgli e che ne hanno permesso la cattura. Sono tre donne totalmente diverse le une dalle altre. Ognuna con il proprio background e la propria storia che si ritrovano, in maniera terribile, nella rete di un predatore senza scrupoli.

Alcala entra indisturbato nella vita di queste donne, passando per la porta principale. Entra con un sorriso malizioso stampato in volto e con un fare intrigante che poso fa presagire del mostro che si nasconde dietro. Ma a un’occhiata prolungata, ecco che la vera natura dell’uomo sgorga fuori come melma nera che inquieta, corrompe e uccide. Cheryl lo percepisce e ne ha istintivo terrore. E lo percepiamo noi pubblico, grazie a una regia minuziosa che si sofferma sugli sguardi, sui gesti e manierismi di Rodney Alcala. Netflix sforna un altro prodotto di genere crime ma stavolta il serial killer non ha tutte le luci puntate addosso (questi invece sono le 10 migliori serie tv disponibili sul catalogo che parlano di serial killer).

Woman of the Hour non va mai nella direzione di Zodiac o Mindhunter.

Ci sono momenti che rimandano a quel vibe e a quelle atmosfere ma rimangono appunto momenti. Il punto non è conoscere la psicologia perversa dietro le azioni di Rodeny ma come e quanto queste azioni abbiano avuto peso nella vita delle sue vittime. Non solo le tre donne al centro della pellicola ma anche tutti gli altri volti senza nome che hanno avuto la sfortuna di incrociare la sua strada. E che per tanto, troppo tempo non hanno ricevuto giustizia. L’unica vera pecca della pellicola è proprio quella di non essersi presa maggiore spazio per esplorare le vittime e la loro storia. La Kendrick ha un guizzo registico brillante ma poi non approfondisce. C’è un senso di incompletezza alla fine della visione che ci lascia a metà di una bella scorpacciata. Siamo a un all you can eat in cui abbiamo mangiato benissimo ma non abbastanza da sentirci sazi.