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Yellowstone 5×05/06 – La testa appoggiata alla sella, rivolta alle stelle

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Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sul sesto episodio della quinta stagione di Yellowstone.

La fredda mano del tristo mietitore accarezza il volto di John Dutton. Sorride lieve, persino rassicurante. La destinazione, preferita all’idea di un viaggio che rappresenta cambiamento, evoluzione. Progresso. Ma no, John non è così. Lui, emblema del conservatorismo nella natura più letterale del termine, accoglie la morte con l’idea dell’estrema staticità, per molti versi allietante. Un sospiro di sollievo, al termine di una battaglia estenuante. John, d’altronde, ha da sempre una sua idea di paradiso. Ed è un’idea in cui vive, si ristora e si rifugia, nel momento in cui la vita lo tira per la giacca e lo costringe a resistere all’intemperie di un mondo che non vuole saperne di stare fermo. John, il cowboy, sembra aver più paura di vivere che di morire. E nel momento in cui la fine sopraggiunge, al suo fianco e negli occhi di un caro amico scomparso, non è la disperazione ad assalirlo bensì un’accettazione solida, vivida. Come se fosse pronto a quel singolo istante fin dal primo momento in cui ha messo piede in questa realtà. Mentre l’angoscia per un tempo in cui sente di essere fuori posto cede il passo a un sogno, laddove tutti gli altri vedrebbero delinearsi un incubo.

Yellowstone, in fondo, non è solo casa sua. Non solo la sua terra. Non solo il suo regno. Yellowstone è, prima di tutto, la sua utopia.

Un eden da preservare a ogni costo, anche in nome di una famiglia da sacrificare. E un’eredità da tramandare all’umanità, prima ancora che alle rare persone a lui care. Un paradiso, a occhi aperti. Sempre più ricorrente, negli echi delle sue parole malinconiche. Tra una galoppata, libera, nelle lande irraggiungibili dal tempo e un orizzonte, avvolgente, scrutato con l’amore di chi non si arrenderà mai all’idea di non poter essere solo un cowboy, la sua ascesa assume dei contorni metafisici che ne fanno il messaggero ideale delle informazioni più meste. E l’uomo che più di ogni altro può stringere in un abbraccio chi, la morte, non sa portarla con sé senza sentire l’impulso di scacciarla. Chiude gli occhi, John, mentre è costretto a tenerli aperti. Un’immagine emerge tra i suoi pensieri, nell’istmo in cui si congiungono le leggende e il peso leggero di una storia ormai passata: il capo poggiato sulla sella, rivolto alle stelle. In una notte che concede l’onore di non concludersi mai.

Attraverso una sola immagine, quella che John usa per rincuorare e consolare la disperata vedova dell’ormai immortale Emmett, si esprime l’essenza degli episodi 5 e 6 della quinta stagione di Yellowstone. E di un sentimento che accoglie tutti i protagonisti dell’appuntamento più importante nella vita di un ranch: la marchiatura del bestiame. I Dutton ritrovano allora un contatto con la natura più selvaggia, mai davvero dominata e sempre accolta con l’idea di non dover in alcun modo cercare un compromesso con essa. Permetterle di cristallizzarsi in una memoria da tramandare, senza arrivare a uno scontro. Un incontro con un’entità dai tratti divini, la rappresentazione di tutto quel che di bello ha da offrire un’esistenza per quanto possibile incontaminata. Accarezza, la vita. E si sovrappone alla morte, nel pensiero di una continuità tra il percorso terreno e quello ultraterreno. Una nuova energia sembra rinvigorire gli stanchi teatranti che lottano contro il cambiamento e si aggrappano al secolo perduto, quello degli uomini coraggiosi, per ritrovare il senso più profondo di ogni cosa.

John, allora, ritrova un piccolo sorriso, e dimentica ancora una volta di essere il governatore del Montana. Vive libero, per qualche ora. Vuole mostrare al mondo la bellezza del suo, di mondo. Si riscopre cowboy, all’alba di una giornata lieta pur nel momento in cui affonda nella tragedia. E si mostra invidioso, per una volta. Dell’amata figlia, la Beth che non conosce via al di là dell’assecondamento dei suoi impulsi, nel terreno in cui il cuore sovrasta impetuoso la mente e la porta a rappresentare il significato del cognome che porta fiera. Una donna che trova nel suo essere libera l’unica potenziale chiave per essere chiunque voglia essere. Al pari dell’Elsa che aveva stretto i nostri cuori un secolo e mezzo prima, si schiude in una timida espressione d’illusoria felicità, scruta l’orizzonte con rinnovata vitalità e si lascia andare a un lirismo che sente di non poter condividere con nessun altro, a eccezione dell’amato Rip. Beth, finalmente, si ferma. Respira. Con gli occhi lucidi di gioia, non più spenti dalle ombre di un passato che insiste nel tenerla in ostaggio. E scopre così, tra le mille impervie vie di una resistenza ogni giorno più insostenibile, la sua piccola Yellowstone. Una minuta terrazza in cui stringersi in un romantico abbraccio, cullata da un prato in cui lasciarsi stordire dall’alcool e intossicare dal fumo dell’ennesima sigaretta.

Yellowstone si trasforma così nel palcoscenico di una visione onirica, in cui nessuno vorrebbe tornare alla frenetica realtà di un’umanità che si accanisce contro chiunque si contrapponga alla propria arroganza. Quella realtà, però, travalica i confini del ranch senza bussare alla porta e pervade l’aria con un invisibile veleno, sempre più tangibile. Il fuoco incrociato di un nemico dai mille volti non cerca il compromesso né il reciproco rispetto. Se non nella prospettiva di Summer, incarnazione di una città ipocrita e incapace di trovare un equilibrio col disegno di un qualsivoglia Dio, la cui difficile coesistenza coi Dutton pare aver finalmente trovato un fragile punto d’incontro. I moti di un’umanità allo sbando si scatenano nella furia di due donne venute alle mani nella narrazione di un arbitro mai imparziale, spietato nell’evidenziare le contraddizioni di una generazione spesso più interessata ad alimentare il proprio ego che a salvaguardare davvero il pianeta. Nonostante ciò, un dialogo esiste. Ed esiste persino una potenziale sintesi, seppure introvabile nel tempo di una sgradevole cena condivisa.

Il dialogo, però, sembra non potersi instaurare con nessun altro. Non con chi spara ai cani col solo fine di garantire l’ordine pubblico in vece del comandante in capo. Né con una donna che scava nelle fragilità di un figlio rinnegato, lo seduce e lo manipola per portarlo ancora una volta alla deriva. Né, tantomeno, col figlio stesso, il codardo Jamie sempre prossimo a sabotare se stesso e percorrere nel senso sbagliato una storia scritta da qualcun altro. Immerso nell’oscurità in cui il ghigno incerto congiunge la vittima col carnefice, e le prospettive di rivalsa con l’inevitabile nuovo capitolo di un dramma shakespeariano dai soli sconfitti. Nel minaccioso appunto finale che chiude il sesto episodio della quinta stagione di Yellowstone, la morte ritrova quindi il suo spazio vitale e si spoglia d’ogni idealizzazione per riappropriarsi della scena in tutta la sua crudezza. Non più sul volto serafico di un vecchio cowboy destinato all’eterno riposo, ma nel solco di una torrente rosso di sangue, prossimo a macchiare la terra dell’eden. Una fredda mano si approssima quindi sul palco, senza più accarezzare il volto dell’uomo con cui condividere l’ultima armoniosa danza. Al suo posto, il cuore gelido del progresso, insolente dopo esser stato sbattuto contro un muro. Deciso a strappar via le pagine della storia. E scriverne un’altra, senza più lasciar spazio alla tenera ingenuità della poesia.

Antonio Casu

Yellowstone 5×03/04 – Dall’alba al tramonto