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Revenge ha forse una stagione di troppo, ma rimane un saggio di gestione di ritmo e trama avvolgente

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Quando mi sono avvicinato a Revenge per la prima volta, ne avevo sentito parlare sostanzialmente male. O meglio: ne avevo sentito parlare come una serie tv guilty pleasure, principalmente, una serie alla You o La Casa de Papel – non per similitudini di trama, ovviamente, solo per far capire un po’ l’area di collocazione in termini di cosa aspettarsi, quindi una serie ritmica e coinvolgente ma con tanto trash e tanti occhi da chiudere su buchi di sceneggiatura e approssimazioni varie – una serie con cui divertirsi e nulla più insomma, non certo la serie della vita. Quando l’ho cominciata però ho avuto tutt’altra sensazione, sensazione più che confermata una volta finita: Revenge è sicuramente molto più di questo. Non è la serie della vita, certo, ma non è nemmeno una serie da sveltina come me l’avevano fatta intendere. È una serie su cui c’è molto da dire, innanzitutto. La maggior parte delle cose che ci sono da dire sono positive, poi ovviamente Revenge è tutt’altro che esente da peccati: primo su tutti, quello di avere probabilmente una stagione di troppo senza la quale di cose negative da dire ce ne sarebbero state ben poche.

L’obiettivo primario di Revenge è ben chiaro sin da subito: tenerti incollato allo schermo. Sempre, comunque, ovunque, in ogni puntata. In Revenge non ci sono mai pause, raramente assistiamo a puntate filler nel vero senso dell’accezione: il suo obiettivo è quello di portarti a un binge-watching sfrenato, ossessivo, come se fossi sotto attacco costante di fame chimica ma con una serie tv. Ci riesce bene, benissimo, per le prime due stagioni. Ci riesce abbastanza bene nella terza, pur con qualche inciampo. Ci riesce un po’ meno bene nella quarta, ma ci arriveremo. Il punto è che quando hai un obiettivo così ambizioso, quando punti tanto – se non tutto – sul trittico ritmo-trama avvolgente-colpi di scena costanti, e punti a farlo bene e non in maniera raffazzonata, i rischi che ti prendi sono immensi. C’è il pericolo che la trama, a forza di correre, a un certo punto cada rovinosamente. Poi magari si rialza ma cade di nuovo, e ancora e ancora, facendo perdere allo spettatore fiducia nella bontà complessiva del prodotto che a quel punto sì, non rimane altro che un guilty pleasure (come La Casa de Papel, appunto). Io non credo, però, che Revenge sia mai arrivata a questo punto.

E già questo è un merito estremo, se consideriamo che è un prodotto vecchio stampo di lunga serialità: 22 puntate a stagione (l’ultima addirittura 23) per 4 stagioni, con un prodotto di questo genere da portare avanti, sono veramente tantissime. E reggere l’urto senza troppe perdite è già un risultato pazzesco. Perchè in Revenge succedono sempre tante cose e portare avanti tante cose senza sbavature, alla lunga, può diventare un problema non da poco. La vendetta, come si evince agevolmente dal titolo, è il tema chiave della serie: ma se all’inizio la cosa riguarda solo la protagonista Emily Thorne alias Amanda Clarke – determinata a vendicarsi della morte del padre, vittima innocente di un complotto terroristico – con l’incedere della narrazione praticamente tutti i protagonisti avranno qualcosa di cui vendicarsi. Intersecare trame e sottotrame, duplici e triplici livelli di narrazione servendosi sempre di ritmi forsennati è già di per se’ un’opera notevole, che presta facilmente il fianco alle potenziali cadute rovinose di cui parlavamo sopra. E se è vero che Revenge non è mai davvero caduta rovinosamente, è altrettanto vero il fatto che a un certo punto ha evidentemente voluto troppo, preteso l’intero jackpot, quando si sarebbe potuta fermare una stagione prima consegnandosi ai posteri come una serie che aveva fatto egregiamente il suo lavoro senza mai cedere il passo di un millimetro.

Fino alla fine della terza stagione, infatti, Revenge è stata sul serio un saggio di gestione di ritmo e trama avvolgente, elementi che sono andati a nozze con una serie di colpi di scena costanti ma mai davvero percepibili come esagerati, forzati o fuori luogo. Una serie antesignana di How to get Away with Murder – quest’ultima sì, perfetta su tutta la linea fino in fondo – nel suo genere di riferimento. I problemi cominciano a insorgere nell’ultima faticosa stagione, e non tanto per quella che sembrava la trovata narrativa più folle in assoluto: la resurrezione di David Clarke, quel padre per cui Emily\Amanda ha smosso mari e monti al fine di vendicarne l’onore e la memoria, avvenuta alla fine della terza stagione, in fin dei conti non si è rivelata una cazzata gigantesca come sembrava essere all’inizio. La ri-costruzione del percorso di un personaggio che avevamo visto solo nei flashback è stata in fin dei conti lineare e credibile, e anche il suo ingresso in scena è stato sensato, è sembrato parte di una costruzione studiata e non improvvisata solo per stupire lo spettatore.

Il problema, infatti, non è questo: il ritorno di David Clarke, coi Greyson ormai alle corde, Conrad morto per sua stessa mano e la narrazione principale che sembrava ormai giustamente agli sgoccioli dopo aver dato il massimo nelle tre intense stagioni precedenti, era in effetti l’unica (rischiosissima) soluzione possibile per mandare avanti la serie ancora per un’altra stagione. David era l’unico elemento in grado di sparigliare ancora le carte e dare un senso alla visione di Revenge, che pur non essendo arrivata stanca alla fine della terza stagione era arrivata comunque al limite, al giusto e definitivo turning point che le suggeriva di fermarsi chiudendo in grande stile. Fatta la cosa più difficile – far tornare David in modo sensato, costruendo una backstory coerente per il suo personaggio sparito nel nulla e non realmente morto – Revenge ha scoperto di essere comunque troppo stanca per andare avanti, nonostante il riuscito colpo di teatro.

Il finale di Revenge è comunque più che buono, nonostante tutto, è un finale che chiude il cerchio sia sul piano narrativo che su quello emotivo, costruendo anche in modo brillante un perfetto ponte per uno spin-off sul personaggio di Nolan Ross, decisamente il personaggio più adorabile della serie, uno di quelli che vengono scritti proprio per essere amati da tutti. Ma nonostante il finale sia di buonissimo livello, dietro c’è una stagione che al netto della prima manciata di puntate – col ritorno di David che ha creato scompiglio e voglia irrefrenabile del solito, immancabile binge-watching – ha fatto una fatica veramente colossale a farsi seguire come un tempo, cadendo nel clichè di diventare spesso e volentieri una copia sbiadita di quel che era. In fin dei conti, se proprio si voleva re-inserire David – e al netto di tutto, per come l’hanno costruita, si poteva fare – sarebbe bastato re-inserirlo nella stagione precedente, magari a metà, accelerando le cose e arrivando in qualche modo all’ottimo finale che abbiamo visto, senza che dietro ci fossero almeno una quindicina di puntate – quelle tra l’inizio e la fine della quarta stagione – prive di quel brio e di quella brillantezza narrativa che avevano sempre contraddistinto Revenge in precedenza.

Al netto di questo, comunque, Revenge è molto più che un guilty pleasure: è una serie scritta molto bene, specie se paragonata ad alcune serie attuali dello stesso genere. Certo non è un capolavoro sul piano della recitazione, non si può fregiare di una regia illuminata o di una fotografia d’eccezione, ma è comunque come minimo sufficiente anche sotto questi profili (salvo per le performance di due-tre attori che avrebbero fatto urlare come un pazzo Renè Ferretti). Una serie che merita di essere considerata anche tra i riferimenti nella sua categoria di appartenenza, e che comunque ti gasa da morire seguendo le sue evoluzioni puntata per puntata (ultima stagione a parte): io a vederla, al di là di tutto, mi sono veramente divertito un sacco.

Vincenzo Galdieri