Se siete fan della serialità thriller/noir/drammatica, nel 2024 con buona probabilità avete fatto la conoscenza di Ripley. Se non l’avete ancora fatta, vado contro il mio stesso interesse: smettete subito di leggere questo articolo, andate su Netflix e recuperate. Uno tra i prodotti più interessanti distribuiti lo scorso anno, questa miniserie in 8 puntate ha riportato sugli schermi una storia già conosciuta sia a livello letterario – è tratta dal romanzo del 1955 Il talento di mister Ripley di Patricia Highsmith – sia cinematografico, grazie all’omonimo film del 1999. Storia già apprezzata, un nuovo modo di raccontarla: con un’estetica incantevole, in un bianco e nero che è omaggio ai noir anni Quaranta, capace di tirare fuori tutta la drammaticità di una storia senza freno alcuno.
Parlare di Ripley significa sì parlare di una trama intensa, ma anche di un cast in cui ogni singolo attore, dal protagonista alle comparse, è stato pienamente convincente. Deve per forza di cose significarlo perché in casi come questo, nei quali la lentezza regna non fastidiosamente sovrana, l’interpretazione è tutto, o quasi. Le espressioni, gli sguardi, ogni singolo dettaglio nei movimenti dei corpi è significativo. Tutti, finanche il gatto di un palazzo romano, hanno fatto la loro parte. E se più e più volte si è parlato di quanto Andrew Scott, un incredibile Tom Ripley, abbia dato il meglio di sé, poco ancora si è detto delle interpretazioni di altri attori. Attori dal ruolo forse meno principale, ma non necessariamente meno importante.
Oggi diamo onore e merito a Maurizio Lombardi, volto nostrano che ha dato vita a un Ispettore senza il quale metà della suspence non sarebbe stata quella che abbiamo vissuto.
Maurizio Lombardi: oltre ogni confine.
Ogni volta che si parla di cinema e serialità italiana si aprono numerosi dibattiti. C’è chi dice che i nostri prodotti sono scritti male, chi afferma con convinzione che i nostri attori sembrano tutti delle macchiette. Personalmente non credo né l’una né l’altra, ma credo piuttosto che sia riduttivo fare di tutta l’erba un fascio. E credo che a volte concentrarsi sulla critica a priori non ci aiuta a guardare ciò che invece c’è di buono e chi è ben capace di interpretarlo. Credo anche che Maurizio Lombardi sia un esempio abbastanza lampante di tutto questo.
Classe 1973, Maurizio Lombardi è arrivato sul grande schermo nel 2000 con Una notte per decidere di Philip Haas. Una produzione britannica e americana ambientata nella sua Toscana, preludio di una carriera che di contatti tra l’intrattenimento italiano e quello internazionale ne ha vissuto ben più di uno. Lo abbiamo infatti visto, ben prima di Ripley, in Tutti i soldi del mondo di Ridley Scott, Pinocchio di Matteo Garrone, The Young Pope e The New Pope di Paolo Sorrentino. Ha indossato panni da commedia e da dramma senza perdere in credibilità. E in più di un’occasione ha dato prova di un interesse particolare nei confronti di tematiche storiche e sociali di un certo rilievo. Esempi? Ha preso parte – tra le altre cose – a 1992 e ai suoi seguiti, a Rapiniamo il Duce e alla recentissima M. Il figlio del secolo.
Una carriera, la sua, che in Ripley ha visto un nuovo, importante successo.
Conosciamo l’Ispettore Pietro Ravini – il personaggio interpretato da Maurizio Lombardi – all’inizio della sesta puntata della serie, dopo l’omicidio di Freddie. Quando viene ritrovato il suo cadavere, nell’auto in cui Tom lo ha lasciato, è proprio a Ravini che viene assegnato il caso. Un caso che, anche se lui ancora non lo sa, non sarà di semplice risoluzione. Lo vediamo camminare verso la scena del crimine con il passo deciso e l’espressione di chi in una situazione del genere si è già trovato parecchie volte. Nei volti delle persone alle quali va incontro c’è reverenza, c’è rispetto e c’è anche un bel po’ di timore. Ravini non è un Ispettore qualunque: è uno di quelli con i quali non si può sbagliare.
La voce profonda e il tono impositivo sono quelli di chi sa che un lavoro come il suo deve essere svolto seguendo regole ben precise. Lo sguardo fiero e inquisitorio è quello di chi parla con tutti ma non crede a nessuno. È lo stesso sguardo che ritroviamo anche nel resto della storia che lo riguarda. Ravini dubita sempre, dubita di tutti, ma agli altri concede anche delle opportunità. Purtroppo o per fortuna – perché una delle bellezze di Ripley è proprio il fatto di non sapere mai da che parte stare – anche alle persone a cui non dovrebbe concederle. Ma soprattutto crede nel suo ruolo, ed è disposto ad arrivare in capo al mondo pur di ottenere le risposte alle sue domande.
Certo, Tom Ripley riesce sempre a farla franca.
Ma questo solo perché anche la più incredibile delle fantasie farebbe fatica a concepire un piano come il suo. Quando lo incontra per la prima volta è convinto di star parlando con Dickie. Una convinzione, la sua, che resta ben radicata nel tempo, e che viene scardinata solo da una precisa casualità. Si presenta in una casa ancora macchiata di sangue e fa le sue domande con la fermezza di chi sa di avere davanti qualcuno che non gli sta dicendo tutta la verità. I suoi occhi, la sua postura, il suo modo di chiedere e di ascoltare sono sempre coerenti, e non escono mai fuori dal suo schema. Ravini è un rappresentante della legge, un uomo tutto d’un pezzo nel modo di parlare, di scrivere, di muoversi.
È la perfetta rappresentazione di un Ispettore d’altri tempi: quelli di un mondo molto maschile e tutto d’un pezzo, poco propenso ai sorrisi e parecchio alla risoluzione pratica e pragmatica dei problemi. E dei casi d’omicidio, ovviamente. Così in realtà non è per il caso in questione, eppure ciò non toglie neanche una briciola al ruolo che Ravini ha avuto in Ripley. In una serie che ai ritmi lenti ha saputo alternare una profonda suspense, dobbiamo alcuni dei momenti di maggiore apprensione proprio all’Ispettore Ravini. Riuscirà a capire chi è Dickie e chi è Tom? Andrà totalmente fuori strada? Diventerà egli stesso vittima di uno dei raptus di Tom Ripley?
Mentre Ravini fa le sue domande ai personaggi, noi ci poniamo le nostre.
Ma la verità è che quasi nessuna di queste domande avrebbe trovato spazio nelle menti di noi spettatori se Maurizio Lombardi non avesse svolto un lavoro di interpretazione così minuzioso. Preciso almeno tanto quanto il modo di fare del personaggio al quale dà il volto. E allora oltre ai plausi ad Andrew Scott – che sono un po’ come il prezzemolo, ci stanno sempre bene – è doveroso farne uno anche a lui. Con la consapevolezza che, in una produzione nostrana o estera che sia, ci rincontreremo.