La colpa che spesso si dà a Romanzo Criminale è quella di essere riuscita a banalizzare il male, a farci empatizzare con il male. Ma non è una questione di empatia, quanto più di umanità: il male non è banalizzato ma umanizzato. Romanzo Criminale non è altro che uno specchio. Per questo è quasi impossibile non commuoversi davanti alla fine tragica del Libanese o a quella del Freddo. Il Dandi, invece, affronta un altro tipo di morte. Da ritorsione fatale − come era nel caso del Freddo e del Libano – diventa quasi il prezzo da pagare per una vita dissoluta, votata all’egoismo, al consumismo e alla crudeltà gratuita.
Il Dandi è la figura di criminale quanto più vicina alla realtà, nella sua nascita, nella sua evoluzione, nella sua fine. Agli esordi della Serie, la sua figura ricorda un po’chi fa il gradasso per sentirsi meno mediocre di quanto realmente non sia. Tutto ciò che fa, che dice, che pensa è mosso da un unico fine individualistico che è quello dell’apparire piuttosto che dell’essere. Ed è su quest’onda che si evolve il suo personaggio, in un crescendo di megalomania e istrionismo da novello D’Annunzio.
La figura quasi paterna del Libanese sembra essere l’unico freno all’ego del Dandi, così con la sua morte sembra quasi scatenarsi un delirio di onnipotenza che corrisponde, per antifrasi, alla chiusura eremitica del Freddo.
Mario, da ragazzo di borgata, si trasforma in un abile e spietato calcolatore, vanesio e circondato dai suoi vizi. Avvelenato dalla sua stessa e subdola ambizione, la sua immagine e il suo ego si distorcono capovolgendo la realtà davanti ai suoi occhi. Gli amici diventano appoggi da usare e poi eliminare, l’amore diventa rabbioso possesso, l’es prende il sopravvento sull’io. Ed è così che si innesca un meccanismo autodistruttivo dove eros e thanatos si fondono, fino a inglobare e a soffocare prima la banda poi il Dandi, ormai sopraffatto dalla sua stessa linfa vitale.
Il Dandi non è re di Roma, ma imperatore. Ottenebrato da un potere che non riesce a gestire e che lo surclassa, circondato da consiglieri fraudolenti; novello Caligola, finisce per perire per mano dei suoi stessi prossimi, che lo accusano di peccati che loro stesso commettono, ma non con la spavalderia superumana di farlo alla luce del sole.
Incarnando la più pura malvagità disumana, diventa portavoce di una generazione “cattiva”, specchio di una società massificata fondata sul consumismo e sulla prevaricazione sociale. È un figlio del suo tempo, anzi del nostro tempo, è anche difficile fargli una colpa per ciò che è. Però allo stesso tempo è difficile accettare e mandare giù il suo personaggio, ambiguo e dissacrante. Romanzo criminale è uno specchio: per questo il Dandi fa contorcere lo stomaco, per questo non riusciamo a empatizzare con lui. Perché non vogliamo, perché siamo come lui, soli, egoisti, cattivi, oppressi dal nostro sentimento di onnipotenza. Ed è questo che ci fa specie.