Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler su Romanzo Criminale
Il male non è sempre banale, e con ogni probabilità non avrebbe niente da ridire neanche l’immortale Hannah Arendt. La scrittrice tedesca ci regalò nel 1963 uno dei testi più importanti del Novecento, arrivando alla conclusione che il male perpetrato dalla maggior parte dei tedeschi che si resero corresponsabili della Shoah non fosse legato a un’indole maligna, radicata nell’anima, quanto piuttosto a una totale inconsapevolezza di cosa significassero le proprie azioni. Nacque così il celebre saggio “La banalità del male”, una grande opera da leggere e rileggere. Tuttavia si tende spesso a scambiare la lucida analisi di un contesto ben preciso (la Germania nazista) con una massima universale, valida per ogni concetto possibile di male. Al contrario, la Storia ci ha regalato un’infinità di esempi che vanno nella direzione opposta, spiegabili solo singolarmente. E si può dire altrettanto dei villain più particolari e sfaccettati delle serie tv. Se poi si parla di Romanzo Criminale, ogni personaggio fa storia a sé, facendo di una grande Banda una vera e propria enciclopedia del male.
La netta contrapposizione con i temi del capolavoro della Arendt parte da un presupposto fondamentale: il male della Banda della Magliana è radicato nell’immortalità di un quartiere microcosmico che ha plasmato un’intera generazione (ma non solo: ne abbiamo parlato in questo approfondimento) ed è consapevole, in ogni caso. Anche se ha valicato dei confini ingestibili per un gruppo di scappati di casa che ha fatto tutto in nome della voglia di rivalsa nei confronti di un’intera società. Un American Dream, forzato col piombo in una Terra dalle poche opportunità. La banale radice di un male che ha dato vita ad un’avventura molto più complessa. Questo, più di ogni altro aspetto, ci ha permesso di entrare in empatia con una schiera di personaggi lontani dalla nostra realtà. Se si prende in esame il male in Romanzo Criminale, si parla, oltre ogni cosa, di potere. E se si parla di potere, si discute, spesso, di leadership. Per questo prenderemo in esame solo il Dandi, il Libanese e il Freddo, considerando gli altri a metà del guado tra l’uno e l’altro.
Partiamo dal leader dei leader, il Libanese. La sua rivoluzione, quella vera, è nata nel giorno della terribile onta subita dal Terribile (lo stupro di gruppo di quella che era allora la sua ragazza), e si è tramutata ben presto in un moto rabbioso che l’ha progressivamente svuotato, fino a ucciderlo. Il Libano, dotato di grande carisma, ha mostrato una capacità di leadership tale da permettere la creazione della prima Banda romana (superando il vecchio schema delle Batterie) e renderlo un vero e proprio Re. Temuto e rispettato da tutti, ad esclusione di se stesso. Avrebbe potuto avere tutto e l’ha avuto, seppur solo in un effimero sogno di pochi anni. Così come la rabbia l’ha portato in alto, l’ha disintegrato in un batter di ciglia, immergendolo nel loop autodistruttivo di un povero arricchito che si è fatto sopraffare dalle manie d’onnipotenza, unici palliativi capaci di placare il vuoto che albergava dentro di lui.
Il Freddo, al contrario, è stato il leader del “famo domani”. Come ha sottolineato Vincenzo Di Somma in un interessante focus di qualche giorno fa (eccolo), Fabrizio Soleri è l’uomo delle sliding doors e delle occasioni perdute, mancate in nome di una razionalità fuori dal comune coincisa con uno scarso tempismo. Una contraddizione, come quella di un Freddo passionale, morto in nome di una vendetta che ha guardato troppo in là nel passato. La sua incarnazione del male è indignata, delusa, mai arrendevole. Roma è una città sulla quale sputare sopra dopo aver ricevuto lo stesso trattamento. La sua è una rivoluzione politica, senza colore. Incapace di appoggiarsi alla politica, quella vera. Lui, a differenza del Dandi, rappresenta la forma romantica del male, strumento mai fine a sé nelle mani di un idealista. Il Freddo, tuttavia, ha capito troppo tardi che vince chi si avvicina di più ai De Angelis e non ai Proietti.
Per questo, e non solo per questo, il male incarnato dal Dandi, ambizioso ed egoista, vanesio e spietato, è il più pericoloso. Perché disperde alla base ogni forma di umanità, in nome di un’animalesca voglia di prevalsa dalle ombre primordiali. È il male più consapevole, radicato nell’anima di chi non sa guardare oltre i propri interessi ed è pronto a tutto pur di imporre la propria dittatura. È un male esibito e allo stesso subdolo. Un veleno incolore che scorre nelle vene, senza lasciar possibilità di disintossicarsi. Il Dandi non ha sentimenti: è dominato da emozioni distorte che confondono la possessività con l’amore, l’opportunismo con l’amicizia, i fini ultimi con i principi. È un male senza tempo, capace di sopravvivere alla morte del suo interprete e di brillare nella tomba di una bella basilica. È il tumore incurabile che soffoca Magliana e ha strangolato la Magliana. È la banalità della rivalsa, e l’originalità del male. A suo modo, totalitario. Quello dei leader, e delle masse deviate.
Antonio Casu