Il Libanese e il Dandi hanno percorso strade simili all’interno delle dinamiche di Romanzo Criminale. Gli ultimi due Re di Roma, l’uno erede dell’altro, entrambi assetati di potere, e in qualche modo entrambi hanno indirettamente spodestato il regnante che li precedeva.
I loro percorsi non possono che essere osservati e analizzati in parallelo. A confermare le loro similitudini ci vengono in aiuto gli ultimi episodi delle due stagioni.
Entrambi i finali di stagione si aprono con un sogno. Fin dalla più antica tradizione letteraria, che si radica addirittura nei poemi omerici, i sogni forniscono la vista sul futuro, preannunciano sventure e il più delle volte la morte stessa del personaggio. Inoltre, quando un guerriero uccideva il suo più importante nemico, questo nelle sue ultime parole preannunciava al suo assassino la prossima fine.
Giancarlo de Cataldo e Stefano Sollima hanno voluto usare proprio quell’antica tradizione nel raccontare la fine dei Re di Roma.
L’ultimo episodio della prima stagione di Romanzo Criminale si apre sul sogno del Libanese. Si lava le mani e la faccia sporche di sangue, sente dei rumori sospetti, ma quando arriva nella sala vede solo sua madre che rassetta e mette in ordine. La madre è sempre stata una figura chiave per comprendere il Libanese. Lei rappresenta i suoi rimpianti, ma anche le sue speranze, ciò per cui in fin dei conti è diventato ciò che è diventato.
Fin dal primo episodio di Romanzo Criminale, l’obiettivo di Pietro Proietti era tirare fuori la signora Maria da quell’appartamento squallido e farla vivere come una regina, la regina di Roma. Ogni personaggio ha la sua debolezza, e probabilmente quella del Libanese era proprio la madre. E la signora Maria nel sogno avvisa il figlio di non far rumore, di non svegliare il padrone di casa. Nel sogno lui cerca risposte: chi sarebbe questo padrone di casa se non lui? Ma non riesce a varcare quella porta; non riesce ad affrontare subito quel demone. Ci vorrà un’altra mezz’oretta di episodio di Romanzo Criminale perché ciò avvenga.
Ormai la situazione sta collassando, il Freddo se ne va, i suoi compagni non lo approvano più, e tra loro si nascondono anche dei traditori. Il vento sta soffiando sulla casa di carte.
Quando varca quella porta, un riflesso lo acceca: è il Terribile che si gira tra le dita quel coltello che come un filo rosso ha unito tutta la vita di Pietro Proietti. È stato il Libano a eliminarlo, ma non l’ha fatto con le sue mani, non è stato lui a pugnalare al petto il suo nemico, ma aveva detto a qualcun altro di farlo, mentre sulle note di Tutto il resto è noia il nuovo Re di Roma si creava l’alibi perfetto. E proprio per questa mancanza i suoi lo avrebbero man mano tradito. Per questa mancanza il suo diritto sul trono vacillava e per questa mancanza ben presto la fine sarebbe giunta anche per lui.
Il vecchio re annuncia al suo erede, a colui che ne aveva provocato la fine, che l’angelo della morte sta arrivando anche per lui.
Il finale della seconda stagione, e di Romanzo Criminale in generale, si apre su un nuovo sogno. Il Dandi era ancora giovane, era ancora lo stesso Dandi di sempre, un Dandi a cui la vita non aveva ancora dato niente, senza togliergli tutto.
Dandi è al cimitero, davanti al loculo del suo migliore amico, del ragazzo con cui ha trascorso tutta la vita, con cui è cresciuto tra un furtarello di fiori e un altro. È lì, davanti alla tomba del suo predecessore, davanti alla tomba del Re di Roma. Ed è forse quella la tomba che si addice a un re?
Forse era quelo l’incubo del Dandi: finire in un loculo come tanti, dimenticato dal mondo che in un modo o nell’altro aveva contribuito a cambiare. Il Re di Roma non si merita dei fiori finti e un loculo in mezzo agli altri. La povertà è ciò da cui il Dandi era fuggito per tutta la vita, accumulando e spendendo, assetato di potere e ricchezze. Ed è la povertà che forse egli teme di più: non sarebbe più tornato il ragazzo debole che era, non sarebbe precipitato nel dimenticatoio. Dopo tanti anni si rende conto che il suo momento è infine arrivato, e fa quella domanda al suo amico di sempre:
«A Libane’ dimme una cosa: ma che se prova quanno arriva er momento?»
«Aspetta, che tra poco lo scopri da solo»
Il Dandi si sveglia ed è tutta lì la sua vita. Un uomo che ha vissuto tanto, che è diventato grande e potente, ma a spese di chi? Chi ha pagato perché lui potesse arrivare a sedersi sul trono di Roma?
Mario De Angelis è pronto. Il suo amico l’ha avvisato, lui sa che il suo tempo è infine giunto, e si prepara. Si accerta che non venga dimenticato, che non ci siano fiori finti sulla sua tomba, per ricordare “a sta città der cazzo che a comannarla ‘na vorta c’era stato er Dandi“.
E in quella chiesa sono gli amici di un tempo a iniziare il conto alla rovescia. Quella triade si ricompone ancora per dare l’ultimo saluto all’ultimo Re di Roma.
Prima è il Freddo a dare una voce vecchia agli amici rimasti vivi. Ma di amici vivi non ne sono rimasti, ed è il Dandi a essersene occupato. Ma era troppo furbo per sporcarsi le mani, ed esattamente come il Libano con il Terribile, così anche lui aveva provocato la morte del suo predecessore indirettamente, soltanto con la sua esistenza.
In fin dei conti, però, i morti vanno lasciati stare.
E poi l’ultima allucinazione, l’angelo della morte sta planando sul Dandi, ed è il Libanese a portare l’annuncio. È arrivato il momento.
Così come il Libanese è morto sotto casa della madre, sotto la sua casa, la dimora della sua debolezza, così il Dandi viene ucciso davanti a un trono, al simbolo della sua brama di potere, al segno della sua più vera e intima debolezza.
Il sogno e le allucinazioni annunciano ai Re di Roma la propria fine, il coronamento del proprio destino. E sarà forse un caso, ma il Bufalo, arrivato ormai alla fine dei propri giorni, intravede per primo proprio Dandi, l’uomo che ha ucciso, il Re che ha posto la parola fine alla storia della Banda della Magliana.