Sulle qualità e sui pregi di Romanzo Criminale se n’è detto in ogni salsa. È stata sviscerata in maniera minuziosa e a volte anche pretenziosa, spesso tralasciando la carnalità su cui si fonda la criminalità. Sollima è stato un genio nel costruire luci e ombre tra umano e disumano, portando lo spettatore a sorridere d’empatia e a storcere il naso contemporaneamente.
La serie, prima di essere un Romanzo Criminale, è un Romanzo Umano, così umano da far accapponare la pelle.
Il nucleo non è il crimine ma l’uomo, anzi gli uomini che lo commettono. I pregi e i difetti della carne diventano un grezzo blocco di marmo su cui scolpire man mano una moderna Pietà. È il brutto che si raffina, si leviga, si migliora e soprattutto che si nasconde dietro una forma a suo modo positiva.
Romanzo Criminale va scuoiata, letteralmente. È necessario arrivare alle viscere e al cuore – ormai marmoreo – dei suoi personaggi per coglierne l’essenza, tanto disgustosa e amara quanto intrigante. Perciò, tra le anime più nere, risiedono i nostri personaggi preferiti. Non è il loro essere personaggi ad attrarci, bensì il loro essere – in fondo – il dismorfismo del riflesso di noi stessi in una finzione così traslucida da potercisi specchiare.
Per questo motivo, per quanto sia disprezzabile e riprovevole, il Dandi rimarrà sempre nei cuori di noi spettatori. Un personaggio tanto più disumano nel suo universo quanto umano ai nostri occhi, che amiamo perché in fin dei conti è difficile ammettere di odiare noi stessi.
Soprattutto, rimaniamo attoniti davanti alla sua volontà, consapevoli del prezzo che si deve pagare in una vita come la sua.
È difficile raggiungere i nostri risultati a discapito dei nostri amici, della nostra famiglia e della morale? Questo interrogativo, tutti noi, l’abbiamo posto al Dandi. Lui, da bruco di borgata, guidandoci nella sua metamorfosi in farfalla carica di egoismo, si è fatto risposta. Vessillo del consumismo moderno e pioniere di una nuova morale dedita alla parassitismo sociale per sopraffare l’altro e inglobarlo, ci ha mostrato quanto l’ambizione può decomporti, farti marcire dall’interno.
Ciò che è putrefatto puzza anche quando ricoperto di Chanel N°5 e di questo Mario ne è pienamente consapevole. Per questo i tentativi di velare la sua bruttezza restano vani e faziosi.
Si è imposto su Roma diventando divinità di questa neo realtà. Ricostruendosi mattone dopo mattone per creare, infine, un decadente mausoleo nascosto da un velo di Maya, trama dopo trama, a sua immagine e somiglianza. Coprendo con un sudario la carne e il sangue, che da umani si sono autocelebrati come divini, così una sindone profana diventa suo ritratto demoniaco.
Il Dandi vive e la sua immagine rimane lì, impressa, a disumanizzarsi al suo posto, a putrefarsi. Nello stesso tempo, Mario marcisce al posto nostro. Mentre la società cattiva e brutta della quale è figlio si gongola dei suoi successi, lui brucia, perde, si sporca e il suo mausoleo si decompone.
Il suo edonismo fallisce, a vantaggio di chi quell’edonismo cerca di inculcarlo ogni giorno. Il Dandi giunge al suo completo stadio di disumanizzazione quando si lascia inglobare. Quando la sua ambizione lo porta a farsi sopraffare dalle pressioni esterne. Quando, da reietto, non vuole altro che diventare parte integrante del mondo che lo ha sempre rifiutato e messo all’angolo.