“Io stavo col Libanese”. È tutto in quel verbo volto al passato il senso del finale di Romanzo Criminale. La nostalgia per un tempo sorpassato e che non tornerà. In sottofondo sempre più forte, sempre più straziante il grido di Vasco, quel “Liberi… Liberi” che sa di resa. Bufalo e Vasco insieme con la Storia condividono qualcosa. C’è un filo rosso che lega tutto.
Quando Vasco Rossi compose l’album “Liberi liberi” erano passati sei anni da “Bollicine” (1983) e dal brano “Vita spericolata”. Una distanza abissale separa i due momenti, separa il tempo della lotta e dell’estemporaneità da quello della disillusione. In “Liberi… Liberi” compare il Vasco della maturità. Un uomo riflessivo e disincantato, rassegnato.
Libero, padrone di una libertà tanto inseguita ma di cui ora non sa che farsene.
Anche Bufalo in Romanzo Criminale, in quella stratosferica ultima scena che chiude la serie, possiede la libertà. Siamo nel tempo del compiuto, nel momento in cui la lotta, i pericoli, le rivalità e la scalata al potere sono finiti. Tutto è concluso e non tornerà. “Liberi, liberi siamo noi, però liberi da che cosa, chissà cos’è”. “Quella voglia che avevi in più” ora “non c’è più”. La Banda non esiste più e Bufalo può solo affidarsi al ricordo e al tempo del finito, allo “stavo” che non è più “sto”.
Vasco e Bufalo si fanno emblemi di qualcosa. Di un momento preciso nella storia, di un’istante in cui il presente si è trasformato in passato e l’ideologia, la lotta ostinata e disperata non esiste più. Oggi viviamo quel tempo. Un’epoca in cui le grandi recite della modernità sono morte. Gli anni Settanta si sono infranti sul muro del consumismo e possiamo quasi vedere ancora il punto dove alla fine l’onda è tornata indietro. Là giace la rivoluzione giovanile, il Sessantotto, le bombe, la tensione, la lotta per gli ideali, la scalata al potere.
Abbiamo la libertà ma non è come l’avremmo voluta.
Ora, ci rendiamo conto che attorno a noi, attorno al Bufalo, c’è solo il vuoto isolante di una periferia anonima. C’è solo noia e stagnazione. “Quella voglia che c’era allora chissà dov’è”. In Romanzo Criminale c’è sempre stato un filone parallelo alla storia di crimine e inganni, una sfumatura che ha reso grande la serie. L’affiatamento, l’affetto, il rapporto criminoso e ruvido ma pure fatto di ideali e valori. Quella del Libanese era l’età del rispetto, dell’amicizia costruita nel rapporto con Dandi e Bufalo.
Lealtà, onore, stima. Valori condivisi perfino in un mondo criminale, certo simbolo di disonestà, ma anche e soprattutto di opposizione alla società. In quella società che emarginava il diverso e l’anticonformista essere terrorista o criminale finiva per diventare una vocazione. Anche se per lui, per Bufalo, era stata nient’altro che l’unica strada possibile. In quella realtà così febbricitante e complessa la sua certezza era la Banda, era il Libanese.
Bufalo parla chiaro, è diretto, duro ma leale. Ha senso d’appartenenza. Conserva il ricordo del suo amico e leader, di quell’uomo che l’aveva salvato e accolto quando nessuno lo voleva. È fedele, Bufalo. Nell’orrore criminale rimane fedele alla sua natura e ai suoi valori.
Ma quei valori, quegli ideali banditeschi non ci sono più.
“Quella voglia, la voglia di vivere, quella voglia che c’era allora chissà dov’è”. Al Libanese è seguito il Dandi e con lui un mondo nuovo. Un mondo fatto di intrallazzi, compromessi coi potenti, patti con lo Stato. Con Dandi la Banda accede alle stanze di potere e cambia radicalmente. Si fa imprenditrice, stringe mani, sottoscrive accordi e dispensa favori. Ma Bufalo, nonostante tutto, è ancora lì.
Sarà ancora lì perfino quando finirà quel tempo, nel momento in cui della Banda non resterà nulla. Bufalo nel finale di Romanzo Criminale rappresenta l’appendice, il reperto storico di un passato superato. La lotta, ormai, non si fa più con le Beretta, ma con appalti e mazzette. E lui, con quel mondo, non ha nulla in comune. È un estraneo.
I suoi colpi di pistola fendono l’aria e sembrano gridare con lui. Sembrano invocare un passato più comprensibile. Un desiderio di ritorno alla lotta per la vita. Ora tutto è confuso, sfumato. I contorni di criminalità e legalità si sono fatti incerti, aleatori. Gli ideali, positivi o negativi che fossero, non esistono più. C’è solo il relativismo di un tempo grigio e meschino.
Bufalo si rituffa allora nel passato.
Davanti a lui scorrono i fantasmi della Banda, dei suoi compagni, di un tempo in cui la vita era “spericolata” ma intensa. La fedeltà per il Libanese è intatta: “Libano, la madama!”. Ma un fantasma non ha più nulla da temere e nulla per cui lottare. “Aò, Bufalo! E che me ponno fa? Io so’ morto!”. Morto come quel mondo, l’unico, al quale Bufalo si rende conto di appartenere.
Capisce di essere lui stesso fantasma in un tempo che non gli appartiene. L’unica scelta che può compiere è consacrarsi al ricordo, farsi memoria e porre fine a un’agonia stanca e inutile che si protrae da troppo. Il passato lo aspetta. Ora potrà stare con il Libanese là, nel luogo del compiuto. Disilluso come Vasco, disilluso come i sessantottini. La rivoluzione criminale è fallita. Il mondo nuovo è grigio e ambiguo. Io stavo col Libanese.