Finita una serie se ne inizia un’altra. Il più delle volte passiamo decine di minuti a decidere cosa iniziare tra le proposte social e i rating – non sempre attendibili – della rete. Ecco, Russian Doll è stato un piacevole appuntamento al buio preso la sera stessa e terminato nel tempo di un kolossal. Solo al termine della prima stagione (in trepidante attesa della seconda) scopriremo che sia critica che pubblico hanno mostrato grandi apprezzamenti per la serie pur ammettendo che l’esperienza alla produzione di Natasha Lyonne (anche sceneggiatrice e protagonista) appartiene a un genere quasi di nicchia a metà tra il dramma, il paranormale e la commedia nera. 8 episodi da 25 minuti in cui si consuma l’insolito dramma personale di Nadia Vulvokov (Natasha Lyonne), giovane programmatrice forte e indipendente, dal complicato background familiare che verrà snocciolato nel corso della serie.
La protagonista cercherà in tutti i modi di interrompere un loop temporale che la fa morire nelle maniere più strane facendole poi rivivere all’infinito il giorno del suo trentaseiesimo compleanno. L’attesa del come e la scoperta del perché sono il leitmotiv di ogni episodio in cui la drammaticità degli eventi – la morte su tutti – viene stemperata dalla superba verve comica del personaggio, che la Lyonne ha saputo cucirsi addosso senza fatica. Il complicato rapporto dell’attrice con la famiglia da cui è scappata ancora adolescente, la sua personale storia di dipendenza da alcol e droghe e la forza d’animo con la quale anche la Lyonne ha saputo combattere i fantasmi del proprio passato sono l’essenza di una storia scritta così bene che persino gli aspetti paranormali diventano credibili. Il grande merito nella scrittura del personaggio di Nadia è sicuramente quello di aver saputo sfruttare il cliché dello stesso giorno vissuto all’infinito senza aver fatto il verso o rimandi a nessun altro protagonista di serie o film già visti (soprattutto il Bill Murray di Ricomincio da capo).
L’approccio di Russian Doll al paradosso è pop solo nella narrazione ma i contenuti e gli intrecci scavano nell’animo tormentato della protagonista senza mai appesantire la storia dal punto di vista di Nadia: ripetere e ripetere e ripetere e ripetere, ci fa condividere con la protagonista la percezione di un destino severo che continua a bocciare le sue scelte. E non importa quali siano, perché è fin da subito evidente che la complicata accettazione delle proprie insicurezze e la lotta con i demoni interiori siano le uniche vie di fuga verso un futuro che abbia senso. Tra alcol, droga e relazioni disfunzionali, la svolta della storia arriva quando Nadia scopre di non essere la sola nel loop temporale, ma di condividerlo con un coprotagonista in sincronia perfetta. Alan Zaveri (interpretato dal bravissimo Charlie Barnett) è un bravo ragazzo ossessivo-compulsivo che si trova costretto a rivivere lo stesso giorno con Nadia.
Le fragilità dei due personaggi sono agli estremi opposti pur completandosi inconsapevolmente nello spazio e nel tempo. Nadia e Alan coesistono nella storia senza saperlo, come anime tormentate in inferni chiamati con nomi diversi ma dalla stessa frustrante essenza. La comparsa di Alan è il momento esatto in cui ogni spettatore riesce a immedesimarsi nelle vicende più di quanto non avesse già fatto con Nadia. La normalità alienante di uno non è meno terrificante delle disfunzionalità radicate dell’altra e saperli entrambi vittime delle proprie fragilità restituisce alla serie degli inaspettati aspetti catartici che creano dipendenza e quasi non si vorrebbe che arrivassero le risposte ai perché dei protagonisti. Risposte che chiuderebbero inevitabilmente il loop e probabilmente la stagione (ma non la serie, clicca qui per le ultime novità sul cast!).
Riassumendo tutti gli aspetti, di Russian Doll ci ha colpito l’attenzione stilistica con la quale è stata realizzata.
Trama, temi, personaggi, morali (e amorali) sono una vera chicca per gli amanti delle cose fatte bene. Persino il tema musicale è un leitmotiv a tutti gli effetti. Torna e ritorna negli stessi spazi e tempi, martellando lo spettatore senza annoiarlo mai. Gotta Get Up di Harry Nilsson è la musica del risveglio in bagno e dà il ritmo alla vicenda proprio nel momento in cui un ritmo non servirebbe: all’inizio. Che poi è il “rinizio”, l’ennesimo. Ed è in mezzo, alla fine, all’inizio. Dopo il primo episodio entra in testa per restarci a distanza di giorni, provare per credere.
E poi ci sono i dettagli, quelli su cui rifletti solo alla seconda visione: Nadia è una designer di videogiochi e come nei videogame muore per riaffrontare sempre lo stesso livello con diverse consapevolezze, esattamente alla stregua di un gamer alle prime armi. Migliora a ogni vita spesa che non è mai sprecata se può aiutarla a migliorarsi per riuscire a superare il livello. A mano a mano che le vite vengono perse, lo scenario cambia, peggiora, ma nessuno potrebbe spiegare con certezza il perché alcuni dettagli scompaiano o mutino. Forse solo la stessa Lyonne, ma lasciare qualcosa di aperto alla libera interpretazione rende il tutto ancora più affascinante di quanto non sia già.