Materia strana e sfuggente, la verità: pensi di averla afferrata e invece ti scappa tra le dita, come la polvere in un raggio di luce. San Patrignano, la comunità di recupero fondata da Vincenzo Muccioli, è questo: né verità né menzogna, solo punti di vista. Netflix ha confezionato un piccolo gioiello, con il documentario SanPa: Luci e Tenebre di San Patrignano, produzione italiana che può aspirare alla notorietà internazionale.
Chi è stato giovane negli anni Ottanta lo ricorderà: i ragazzi si facevano di eroina e morivano ai lati delle strade come mosche. La droga era l’unico collante di una generazione che aveva smarrito ogni punto di riferimento. La stagione del terrorismo, il crollo delle ideologie e l’impulso consumistico stavano smantellando l’utopia della fratellanza, dello scambio di idee e della lotta ideologica in favore di un nichilismo in cui la droga ha avuto gioco fin troppo facile.
Walter Delogu, bodyguard di Muccioli e suo principale accusatore (le malelingue dicono anche ricattatore), uno dei tanti testimoni chiamati a dire la propria verità sulla comunità per il recupero dei tossicodipendenti più grande d’Europa, lo dice schiettamente. Comunisti e fascisti facevano la fila insieme dallo spaccino, per andare a morire fianco a fianco in strada. Le famiglie vedevano i loro figli trasformarsi in zombie, salvo nei momenti in cui l’astinenza li tramutava in belve, pronti a vendersi la televisione per una dose. Una piaga sociale, per usare un lessico caro ai sociologi da talk show, che propinavano le loro lezioni di vita dai programmi di approfondimento senza sporcarsi le mani.
In un contesto in cui lo stato, sostanzialmente, preferiva girare la testa dall’altra parte, chiamato a combattere la guerra altrettanto sanguinosa al terrorismo, entra in scena Vincenzo Muccioli. Ideatore dell’utopia di San Patrignano, nata come comune dal sapore hippie sulle colline romagnole e diventata una instancabile macchina per fare soldi, una volta attirata l’attenzione e gli investimenti della coppia simbolo del capitalismo petrolifero e filantropico italiano, Gian Marco e Letizia Moratti. Muccioli: un guru, un visionario, un tiranno, un padre amorevole e manesco, un esoterista e un uomo dallo spiccato senso pratico. Romagnolo e cosmopolita, sensibile e cinico, inquietante e irresistibile: l’ambiguità della sua figura si gioca in un valzer di contrapposizioni, senza mai arrivare a una soluzione.
Ti sembra di poter toccare Vincenzo Muccioli, di poterlo capire, così come ti sembra, in molti momenti del documentario, di poter toccare e comprendere finalmente San Patrignano nella sua complessità. Eppure, un secondo dopo, i dubbi tornano e la soluzione continua a sfuggirti. Scordatevi di parteggiare per una fazione o per l’altra: SanPa non ve lo permette. Le premesse hippie e paternaliste svaniscono presto ed emergono i lati oscuri dell’esperimento sociale di Muccioli: catene, costrizioni, stupri, violenze, suicidi e persino un omicidio.
I processi che interesseranno negli anni San Patrignano e il suo creatore non fanno altro che confondere le acque a quel tempo e a noi, che guardiamo, le idee. Le testimonianze, raccolte con un’insindacabile par condicio (anche se la comunità non ci sta e diffonde una nota), non aiutano. La nostra mente, per natura portata a schierarsi, vacilla di fronte all’irrisolvibile mistero: San Patrignano era l’inferno o il paradiso? E Vincenzo Muccioli era un santo o un demonio?
Di tutte le testimonianze che emergono dalla nebbia di ipotesi che circonda SanPa, una rimane attaccata all’anima: quella di Fabio Cantelli. È stato uno degli “irriducibili” sostenitori di Muccioli e allo stesso tempo uno dei più critici verso la sua figura. La nemesi perfetta di Walter Delogu: tanto Cantelli è magro e nervoso, tanto Delogu è forte, carismatico. Uno intellettuale e comunicatore, l’altro uomo d’azione con la pistola e gli occhiali da Blues Brothers. Due figure che, anche nell’uscita di scena, non potrebbero essere più antitetiche: Delogu che mostra i muscoli pagaiando contro le onde, Cantelli che cammina stancamente verso il bagnasciuga.
Entrato, come tutti, da tossico, Fabio Cantelli ha scalato la gerarchia della comunità diventando capo dell’ufficio stampa. Lascerà San Patrignano a soli due giorni dalla morte del patron, scegliendo la fedeltà sopra ai dubbi che da anni lo attanagliavano. È forse quello che, più di tutti, ha sofferto i “metodi” di Muccioli: un’ombra continua a velare il suo sguardo, a decenni dalla fine di quell’esperienza, e il suo corpo fragile, sempre sul punto di svanire o spezzarsi è una testimonianza palpabile dell’erosione di mille domande, oltre che dell’Aids. È lui a darci la chiave di lettura di San Patrignano e delle ombre che rincorrono gli sprazzi di luce all’interno di un paradiso che, a volte, svela un volto infernale.
Parlando delle “chiusure”, le reclusioni per settimane, in catene, degli ospiti scappati dalla comunità (esperienza che lui conosce da ambo le parti: prigioniero e sorvegliante), Cantelli si lascia sfuggire una frase che colpisce per la sua durezza. “In quei momenti vita e morte erano talmente intrecciati da rendere impossibile ragionare per assoluti”. San Patrignano è una sfida alla razionalità, al nostro senso di umanità e alla nostra pretesa di dualismo. Un’entità che abbiamo intravisto negli ospedali come nelle carceri, nei campi di concentramento come nei conventi. Una zona d’ombra, in cui vita e morte sono una cosa sola.