American Horror Story


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Murder House è la promessa di un prospetto, l’enfant prodige che lascia intravedere un bel contorno stilistico,costruito per racchiudere un’accessibilissima e intrigante trama teen horror.
Asylum è la consacrazione, il talento che sboccia definitivamente trovando nel ritorno agli anni 90 e nell’uso della narrazione “onirica” la sua espressione più libera e pertinente.
Coven è la superbia, il risultato di chi agisce con indolente sicurezza nei propri mezzi e delude parzialmente i fan, provando a fondere gli elementi di entrambi i prodotti precedenti.
Freak Show è il ridimensionamento, l’adattamento ai canoni tipici dell’horror con l’uso delle icone (quale diventerà Twisty, tra i personaggi meglio riusciti dell’intera serie) e il più acceso ricorso allo splatter.
Poi c’è Hotel, la quale altro non è che il più disperato urlo che cerca attenzione, una lussuriosa e violenta ostentazione i cui intenti sono chiari già solo dalla scelta del cast.
Roanoke è il guizzo estroso, la mossa che prova a invertire la rotta in maniera realmente anticonvenzionale, che si concentra su una struttura narrativa atipica (quella del mokumentary), ma che alleggerisce nettamente le pretese sull’originalità della trama, sacrificandola quasi del tutto.
Ryan Murphy ha fatto di American Horror Story un mutevole esperimento, un’antologia dell’orrore che avesse il fine, più o meno volontario, di riprendere ogni sfumatura di ogni epoca e filone della cinematografia horror.
Iniziando e finendo (finora) con la nostra epoca, con una stagione che ha proprio nella trama il suo punto di forza, e che ha fatto discutere molto viste le implicazioni politiche sulle quali gioca.
Perché è questo che American Horror Story fa, sempre e comunque, con controversia. Fa parlare.
E non è un caso che poi si arrivi a Cult: ciò che American Horror Story, nel bene o nel male, è diventata.
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