Quella di Schitt’s Creek è una vera e propria favola, di quelle che si raccontano ai bambini per far credere loro nella speranza e nelle opportunità. Nel 2015, Dan Levy, co-regista e interprete di David Rose, decide di realizzare la sua idea controversa per la televisione. Perché, in quel momento, le famiglie che si vedono sul piccolo schermo sono solo benestanti e, anche quando affrontano temi complessi, non si rimarca mai il problema economico. E allora, con l’aiuto del padre Eugene Levy (Johnny Rose in Schitt’s Creek) Dan si imbatte in un’idea a suo modo rivoluzionaria (e che in Italia ancora non viene abbastanza apprezzata). E se tutte quelle belle famiglie benestanti, perdessero i soldi da un giorno all’altro? Cosa accadrebbe al loro stile di vita ma soprattutto cosa accadrebbe a loro in quanto identità divise dalla società a cui pensano di appartenere?
Schitt’s Creek, in questo senso, è una favola al contrario. L’idea è quella di passare dalle stalle alle stelle, ma non nel modo canonico cui possiamo essere abituati.
Perché a un certo punto i soldi e la fama passano inevitabilmente in secondo piano e ciò che rende davvero ricchi i personaggi di Schitt’s Creek sarà l’affetto, le emozioni, le esperienze. Tutte cose (che non si possono acquistare) e a cui la famiglia Rose imparerà a dare un certo peso.
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Ma partiamo dalla premessa iniziale di Schitt’s Creek (tra le milgiori comedy degli ultimi anni): come dicevamo, i Rose sono una famiglia ricca con base a Los Angeles, dove il padre di famiglia Johnny Rose impera con la sua azienda di videonoleggio, sua moglie Moira porta avanti una carriera di attrice (soprattutto di soap opera) e i figli David e Alexis vivono circondati dal lusso. Per una truffa ai loro danni, i Rose sono costretti a lasciare la vita agiata di cui sopra e a trasferirsi in un borgo sconosciuto al resto del mondo, Schitt’s Creek. Una cittadina dove sembrano abitare solo persone semplici e lavoratrici, senza troppe pretese e spesso anche un po’ fuori dal mondo.
Con non poche difficoltà, i Rose sono costretti ad ambientarsi: dal motel in cui alloggiano fino alla ricerca di un lavoro per fare capo alle spese quotidiane.
Il primo e forse anche l’unico che pare essere propositivo è proprio Johnny Rose che sa cosa significa avere un’azienda, e quindi anche un lavoro vero, anche se non rinuncerà mai ai suoi completi firmati. Moira invece, da buona attrice drammatica, sarà quella che farà più fatica a trovare il suo posto. Ma sarà anche quella che ci regalerà più momenti divertenti e sopra le righe.
E poi ci sono Alexis e David, fratelli senza quasi mai conoscersi veramente. La prima egoriferita e viziata, il secondo narcisista e schizzinoso. Ma entrambi con un approccio molto più fresco alla nuova vita che sono costretti a farsi andare bene. Il presupposto di base, come si può intuire, lascia grande spazio alle risate e in generale a una narrativa fatta perlopiù di equivoci. Ma quello che più di tutto definisce Schitt’s Creek è la sua vena old school, vecchia scuola. Prima di tutto nella narrazione stessa; le puntate sono sempre da venti minuti circa, nessuna di loro è mai né autoconclusiva né troppo prolissa con le storie parallele.
È una comicità, quella di Schitt’s Creek, semplice e diretta, certe volte persino troppo leggera laddove ci si aspetta qualcosa di più intenso. Eppure, ci si entra facilmente dentro; non si fa fatica a capire l’ironia fresca di Schitt’s Creek soprattutto perché è molto immediata.
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Ed è anche molto ben congeniata rispetto ai personaggi che la portano avanti; ognuno di loro ha infatti un tratto distintivo che, fin da subito, ci permette di affezionarci. Perché in Schitt’s Creek i personaggi sono, esattamente come succedeva già per Friends o per Seinfeld, l’anima della serie stessa.
Ciò che rende Schitt’s Creek unica ma anche molto riferibile a un certo tipo di comedy del passato, è proprio la comicità statica messa al servizio di un presupposto semplice e veloce. Schitt’s Creek, infatti, nasce da un equivoco che non è di certo nuovo: una serie di personaggi messi alla prova in un ambiente che non è il loro. Quello che poi la fa evolvere è proprio, paradossalmente, l’attaccamento a questo stereotipo e la possibilità di ribaltarlo in tanti modi diversi senza mai perderlo di vista. Inventare, insomma, sempre modi nuovi per ribadire l’equivoco iniziale.
Un espediente che conosciamo bene e che inevitabilmente ci ricorda delle ottime comedy del passato dove la falsa immobilità dei personaggi e delle situazioni creava, in realtà, un continuo movimento e una continua tensione.
Schitt’s Creek, come alcuni suoi predecessori, sembra essere sempre prevedibile (e per questo anche rassicurante) ma allo stesso tempo non annoia e riesce a reinventarsi in molti modi diversi. Perché sono i personaggi a riempire la scena, sono i loro corpi a farla da padrone e la loro fisicità a essere prorompente e mai scontata. Ed è questa la lente sotto cui va vista, per forza di cose, Schitt’s Creek: quella della scrittura.
Perché, quando è il personaggio a riempire la scena, la sua scrittura, la sua delineatura, diventa fondamentale. E la caratterizzazione di tutti i componenti della famiglia Rose è una delle cose che, più delle altre, ci fa amare Schitt’s Creek. Ed è una delle cose che ci fa rendere conto di quanto sia potente.
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Di nuovo, come succedeva per serie comedy cult come quelle sopracitate o anche come Will&Grace per dirne una, Schitt’s Creek si avvale della sola presenza dei protagonisti per far nascere le più disparate avventure.
E per far sì che questo funzioni, i personaggi devono sapere esattamente dove andare e cosa fare, nella maniera più limpida possibile. Quindi, da Johnny e i suoi completi inamidati, passando per Alexis e David che esasperano il loro temperamento quasi fino allo stremo e arrivando a Moira che è forse la più scenicamente potente, Schitt’s Creek ci guida attraverso il mondo visto dagli occhi dei suoi interpreti. E lascia quindi molto poco all’immaginazione. È diretta, e conquista anche e soprattutto per questo. Pur non avendo una scenografia fissa, come poteva succedere in Friends o in Will&Grace, Schitt’s Creek ci fa innamorare dei posti in cui ci costringe a vivere. Un po’ come succede ai Rose.
Anche in questo senso, Schitt’s Creek è una favola al contrario. Si parte dall’alto per scendere molto in basso e comprendere quanto, certe volte, si stia meglio senza grandi pretese. È la favola dell’eccezionale che diventa normale, è il sogno americano ribaltato. E lo è davvero, considerando che, quando Dan Levy voleva realizzarla, case di produzione statunitensi del calibro di HBO, la rifiutarono (per poi perdere la vincita di una lista di Emmy da parte di Schitt’s Creek) . Levy si trovò costretto a venderla a una casa di produzione canadese (la serie è infatti girata in Canada), la CBC Television. Come i personaggi di sua creazione, Dan Levy si ritrovò a farsi andar bene qualcosa che scoprì poi essere preziosissimo.
È la normalità di Schitt’s Creek che la rende leggera e divertente senza mai essere scontata o noiosa. È la sicurezza che ci trasmettono quelle vibes anni Novanta che ci appassiona e ci fa affezionare ai personaggi.
E, anche se è terminata con la sesta stagione nel 2020, Schitt’s Creek sembra ferma nel tempo e vederla oggi rischia addirittura di confonderci un po’. Chi ci si approccia per la prima volta (il consiglio è di farlo subito) potrebbe chiedersi, per prima cosa, di che anno sia. Perché il rischio è quello di affezionarsi a Schitt’s Creek esattamente come è già successo col Central Perk.