Quanto pesa un pregiudizio? Quanto possono essere potenti le informazioni? Che conseguenze può avere la verità? Per chi ha visto American Vandal è normale finire l’ultima puntata con questo pensiero, ed è anche normale che questo pensiero diventi un tarlo: darsi una risposta non è per niente facile. Perché per rispondere, prima di tutto, dobbiamo ammettere quanto avere informazioni, conoscere la verità e basarsi sui pregiudizi possa incidere sui nostri rapporti col mondo. American Vandal ha provato a dare una sua risposta a tutto questo, ed è una risposta niente male. Niente male da sentire, ma nemmeno niente male da digerire.
Avete mai sentito parlare di mockumentary? Nemmeno io prima di vedere questa serie. Qui vi avevamo anticipato la sua uscita, ma ai più sbadati occorre un breve riassunto. Il mockumentary (to mock – fare il verso) è un genere molto particolare, perché “simula” un documentario con palesi elementi di finzione. Sostanzialmente lo ricrea, facendone però la satira. American Vandal è proprio questo: le indagini condotte dai protagonisti/registi Sam Ecklund e Peter Maldonado si svolgono nelle high school e sono atte a scovare pericolosi vandali attraverso metodi investigativi fai-da-te. Insomma, una premessa non malaccio ma nemmeno monumentale. Gli attori, inoltre, sono molto giovani e poco visti. Eppure, nonostante tutto ciò e un budget modesto, American Vandal è un prodotto estremamente ben riuscito che riesce a toccare tasti dolenti e nervi scoperti.
American Vandal è difficilmente riassumibile, perchè racconta davvero un sacco di storie.
Basti sapere che i registi/protagonisti Sam e Peter decidono di indagare su atti vandalici particolarmente brutali avvenuti a scuola. Nel parcheggio dei professori vengono trovate 12 macchine imbrattate con forme falliche e in un’altra scuola, a mensa, tutti i presenti vengono avvelenati con una limonata. Avvelenamento che merita il nome di Brownout (e ho detto tutto). L’evento, che coinvolge e sconvolge tutti, viene scandagliato da Sam e Pete intervistando persone, facendo collegamenti e costruendo possibili timeline per scoprire chi sia il famigerato colpevole, il tutto con una suspance e un metodo investigativo ironicamente serio. In entrambe le storie accade questo: una persona viene da tutti additata come colpevole, ma le indagini riescono sia a scagionarlo che a provarne la colpevolezza mille volte. È proprio questo quello che fanno i due registi: in American Vandal troverete così tanti plot twist da farvi venire male alla testa.
Tutto parte con un’accusa al capro espiatorio, accusa che viene ritenuta plausibile da tutti.
Dylan, protagonista della prima stagione, è il classico scemo del villaggio con un’ossessione per gli scherzi mentre Kevin, nella seconda, l’introverso potenzialmente inquietante. Entrambi presi di mira, sono i primi contro cui tutti puntano il dito, e non senza un perché. Hanno tutti e due forti moventi e rispecchiano la persona tipo capace di fare questo genere di cose.
Da queste premesse arriva il primo grande plot twist: compaiono prove schiaccianti che sembrano effettivamente scagionare i due protagonisti. I pregiudizi si scoprono essere solo pregiudizi, i due indiziati sono innocenti e ci sono prove a testimoniarlo. American Vandal, per mostrare tutto ciò, si infanga in una rete di prese in giro, cotte segrete e foto inappropriate che svelano le doppie vite e i tabù di tutti. Sam e Pete riescono a venire in possesso di una quantità enorme di informazioni, informazioni col potere di migliorare o rovinare per sempre la vita di qualcuno. Nel fare tutto ciò la serie seziona questi pregiudizi, li apre e ci guarda dentro, li afferma e li sbugiarda. E nello sbatacchiarli qua è là, American Vandal vuole mostrare a tutti l’importanza e il peso che possono avere, ovvero come la loro lettura possa cambiare le cose. Come possano cambiare non solo il modo in cui vediamo gli altri, ma anche come vediamo noi stessi.
Ma non è solo questa la bellezza di American Vandal.
Perché per compiere questa complessa e spesso tragicomica indagine c’è una cosa alla quale i due registi hanno sempre guardato, cioè la ricerca della verità. E per di più, un tipo particolare di verità: quella insabbiata, scomoda, quella che non uscirebbe dalla bocca o dagli smarphone di nessuno. Quella che persino gli adulti e i professori hanno cercato di mettere a tacere. Quella, in sostanza, che può ribaltare tutto.
Non si sono fermati alle apparenze, e nemmeno davanti a giuramenti e confessioni. Non si sono accontentati di ciò che veniva loro detto e delle versioni “ufficiali” dei fatti, anzi si sono messi a scavare, finendo molto più a fondo di quanto tutti volessero. È sorprendente, in un’atmosfera spesso irriverente, con quanta forza e testardaggine Pete e Sam cerchino la verità, e questo è un pensiero molto forte che la serie ci trasmette. Viene cercata ad ogni costo perché è quel tipo di verità in grado di cambiare irreversibilmente il puzzle, ma purtroppo anche di rovinare per sempre la vita di qualcuno.
Sam e Pete proseguono il loro percorso saltando tutti gli ostacoli, alla ricerca di una verità che sarà tutt’altro che un lieto fine.
Questi sono i due elementi che rendono American Vandal una serie che lascia veramente qualcosa. Qualcosa di non necessariamente bello o positivo, anzi. Piuttosto, qualcosa che ci mette in guardia, che ci sprona a cercare sempre la verità e non accontentarci di ciò che ci viene presentato come tale. American Vandal è un invito a scavare nelle cose, andando sempre più a fondo con tutti i rischi del caso. Il modo in cui verità e pregiudizi si intrecciano in questa serie è brillante e terribile, e ci porta solo a questo: a chiederci se stiamo guardando la versione giusta di mondo, e a che cosa saremmo disposti per trovare la verità.