Chi si appresta alla visione di Californication è spesso mosso dal preconcetto che si tratti di una Serie incentrato sul sesso. È stato spesso questo il limite che ha rallentato il successo di quello che si presenta invece a tutti gli effetti come uno dei lavori più interessanti del nuovo millennio. Certo, il sesso riveste un ruolo fondamentale nell’economia del racconto e il titolo stesso risulta piuttosto esplicativo al riguardo. Ma Californication pur lasciandosi andare qua e là a qualche momento di emozioni forti non espone mai il rapporto fisico al mero piacere della sua rappresentazione. L’atto sessuale è sempre strumentale alla costruzione caratteriale del protagonista e alla definizione di un contesto ben preciso.
La Serie è ambientata quasi interamente a Los Angeles, città di vizi e perdizione, che tanta ripulsione suscita in Hank Moody, scrittore sull’orlo del fallimento.
Lo sfondo ambientale in cui sesso, droga e blasfemia si susseguono senza sosta diventa espressione materiale dell’abiezione morale del protagonista. Hank procede in un lento ma inarrestabile degrado morale che segue tappe scandite da saltuari ritorni sulla retta via. Il sesso si svuota di emozioni e trasporto emotivo. Diventa un atto quasi meccanico in Californication secondo una rappresentazione che vede il massimo referente registico nel kubrickiano Eyes Wide Shut. Hank passa di letto in letto alla ricerca di qualcosa che non può trovare. Alla ricerca di quell’emozione che Los Angeles non può restituirgli. Il suo declino familiare coincide con il blocco dello scrittore che lo assale e lo inebetisce.
L’immobilismo del protagonista di Californication diventa l’elemento dominante di ogni episodio. Non c’è però un’esplicita rappresentazione del peso del vivere. Questo vuoto esistenzialista è soltanto accennato, percepibile come retrogusto rispetto alla trama. È il fascino irresistibile di Hank invece il manifesto programmatico della Serie. La costruzione attentissima della sua personalità prende a modello in maniera piuttosto palese Charles Bukowski, carismatico scrittore e “poeta maledetto”. In comune con lui ha il vizio del bere, la dipendenza dal sesso compulsivo e il nome del suo alter-ego letterario (Henry Charles “Hank” Chinaski).
Hank ha l’intelligenza e la sagacia dei grandi, lo charme del ribelle, l’anticonvenzionalità e lo sprezzo delle norme sociali.
Diventa irresistibile per tutte le donne che si presentano sul suo cammino. Ma nonostante un sincero affetto che suscita in ognuna, non costruisce mai qualcosa di profondo. Involontariamente finisce per essere sfruttato, strumento di piacere pronto da accantonare di fronte al vero amore.
Il vero amore Hank l’ha perduto, poi riconquistato, poi nuovamente perduto. La sua Karen, la madre di sua figlia è il simbolo dell’eterna, inappagata felicità che pare ormai a lui preclusa. “Profumi di buono, sai di casa”, confessa Hank in una lettera a lei indirizzata. Karen è il simbolo del focolare domestico, degli affetti sinceri, del ventre confortevole della famiglia. Come spesso accade agli scrittori Hank idealizza la sua figura, traspone in lei i suoi più puri stimoli. In lei vede la parte migliore di sé. Ma in Californication la compagna di vita di Hank è tutt’altro che perfetta.
In lei c’è la concretezza realistica di una donna con i suoi pregi e difetti; con le sue nevrosi e insicurezze; con le debolezze di una fragilità nascosta ma anche con la forza di chi riesce ad affermarsi ed emanciparsi. Karen più di ogni altra donna nella Serie tiene testa a Hank, ne smaschera l’ipocrisia. “Troppo anticonformista per uniformarti al branco, così mi avevi sedotto. Pensa come sono rimasta male quando ho scoperto che eri solo un cumulo di cliché, un narcisista che si cerca su Google. Ti ho visto!”, attacca.
Eppure è anche l’unica in grado di cogliere e di suscitare altro nel protagonista.
Karen vede, sotto la scorza da cinico, il cuore di Hank, la sua sofferenza, la domanda insoluta che lo tormenta. “Dio ci odia tutti”, il suo ultimo romanzo, come ogni bestemmia a Dio, nasconde una ricerca, una preghiera. Dietro quell’immagine da seduttore e menefreghista c’è la vera natura del protagonista di Californication. Karen è l’unica a riuscire a metterla costantemente in evidenza. È la madre di sua figlia, la donna che lo capisce e lo ama. Ma forse proprio per questo Hank si allontana. Ha paura di mettersi a nudo, di mostrarsi debole, di scoprirsi esposto. Più facile nascondersi dietro gli atteggiamenti da piacione e ribelle.
A far da sfondo all’allontanamento affettivo del protagonista ancora una volta è Los Angeles. L’odiata città ha sedotto il protagonista con le sue luci e col successo, nella prospettiva di un film che trasponesse sullo schermo il romanzo più famoso di Hank. Quel romanzo così viscerale e sincero viene svilito e commercializzato; trasformato in un prodotto di consumo: una melensa commedia romantica dal titolo “A Crazy Little Thing Called Love”.
La critica al mondo dello spettacolo non potrebbe essere più chiara e indirizzata.
Los Angeles è il luogo deputato al piacere e all’appagamento dei più consumistici bisogni. Hank sprofonda in questo universo. È Karen a tradirlo e probabilmente a dare avvio alla disperata ricerca di piaceri momentanei del protagonista. Ma l’allontanamento è opera di Hank, troppo preoccupato dal film e dalla mondanità.
Ecco, la mondanità, altro grande attore principale di Californication. Sulla scena si susseguono senza sosta le espressioni più esteriori di una città tentacolare capace di abbagliare e confondere. La città degli angeli diventa un inferno in cui la vacuità la fa da padrona. Una nuova Sodoma e Gomorra in cui vagano anime perse. Tutti i personaggi, i bozzettistici, raccapriccianti e vuoti interpreti di Californication fanno da contorno a questa lugubre scena. Hank odia la California eppure non riesce a uscirne. Non riesce a staccarsi da quel luogo. È prigioniero di se stesso, delle sue angosce e della sua incapacità di confrontarsi autenticamente con il proprio Io.
Risucchiato dal vortice di Los Angeles vive vedendo costantemente infrante le proprie speranze di redenzione.
Eppure anche in L.A. trova figure che in qualche modo lo guidano nel suo percorso, ne tracciano una rotta seppur incerta. In quel carosello di dannati c’è anche chi come Lew Ashby diventa un esempio per Hank. Il vizioso produttore musicale rappresenterà una sorta di fantasma del futuro dello stesso protagonista. In lui il protagonista vedrà quel destino di perdizione e di rimpianti che lo attende.
Californication come una novella Divina Commedia cala il suo attore principale in una “selva oscura, ché la diritta via era smarrita”. Il susseguirsi di gironi infernali affascineranno e sedurranno Hank ma proveranno anche a scuoterlo dal suo torpore emotivo. Al suo fianco un per nulla credibile Virgilio, quel Charlie, amico e manager, buffonesco e costantemente incerto. A lui è affidato l’improbabile compito di accompagnare il suo compare nelle mondane avventure di ogni episodio. Anche Charlie si calerà in quel mondo, ci si ritroverà e finirà per perdersi.
Nella selva di Californication non c’è una guida certa, un modello sicuro.
Tutti sono vittime della città e dei suoi piaceri. Cadono nel bisogno di appagamento e provano a estraniarsi da se stessi. Provano a non pensare al vuoto emotivo che li assale ogni giorno, all’inutilità delle loro esistenze. La città di cartone li risucchia, li ammalia e li intorpidisce. Li allontana dal peso dell’esistenza. Californication non è mai banale, mai scontata. A volte eccessiva, volutamente eccessiva. Disturbante, nauseante e incoerente. Ma dietro tutto questo c’è un grido e un messaggio. C’è un’attenta costruzione di un percorso che troverà compimento nell’episodio conclusivo.
David Duchovny abbandona egregiamente i panni di Fox Mulder diventando interprete credibile e straordinario mattatore. Californication meriterebbe di essere vista anche solo per lui. Ma c’è altro, c’è molto altro. C’è il cammino dell’uomo nell’inferno delle tentazioni della contemporaneità e la sua difficilissima e per nulla scontata possibilità di risalita.