Tesoro, corri: in tv c’è Fonzie! E improvvisamente la nostra mente vola al passato. Qualunque passato. Che siano i favolosi anni ’50 di Happy Days (1974-84), gli anni ’90 di The Nanny (1993-99) o i 2000 di The Big Bang Theory (2007-19), in un momento, le sit-com ci materializzano in una dimensione sospesa, calda e confortevole, dove possiamo rilassarci e ridere in compagnia di volti familiari. Che sia Leonard, tata Francesca o Fonzie poco importa: alla fine, qualcuno sistemerà qualunque situazione, anche la più complicata. La situation comedy è evoluta nel tempo, è vero. Si è adattata, ma ha conservato le stesse dinamiche, che a un certo punto hanno iniziato a convincerci sempre meno. Quando la serialità è diventata adulta, affermandosi come un mezzo espressivo capace di coinvolgerci sul piano emotivo al pari del cinema, il panorama comico si è stancato della sit-com. Anzi, ogni giorno sembra essere sempre più interessato a farci piangere lacrime amare piuttosto che ridere a crepapelle. La sit-com continua a esistere, ma come un genere secondario. E a giudicare dalle ultime prodotte, sembra essere un retaggio di un’era passata, in cui guardavamo la tv distrattamente, per svagarci, senza sacrificare tempo ed energie. Oggi, invece, una comedy può prosciugarci.
Un format definito, riconoscibile e rassicurante
Nato nel contesto radiofonico nel 1926, il formato sbarca sulle tv statunitensi nel ’47 con Mary Kay e Johnny (sebbene il merito di “inventore della sit-com” sia stato attribuito a William Asher). Un format innovativo, che svecchiava il mezzo televisivo, sebbene ancora molto giovane. Lo show, ad esempio, fu il primo a mostrare una coppia che condivideva un letto e il primo a mostrare la gravidanza di una persona. Nello stesso periodo, nel Regno Unito, arrivava Pinwright’s Progress, dieci episodi comici trasmessi sulla BBC. In Italia, invece, dovremo aspettare gli anni ’80 per vedere una sit-com nostrana, come Diego 100%, diretta e interpretata da Abatantuono. Le storie e le tematiche sono diverse, ma la struttura narrativa è sempre la stessa: un set essenziale, spesso casalingo; situazioni autoconclusive, umoristiche, ironiche e talvolta volutamente irrealistiche; trasmissione in diretta e pubblico in studio. Insomma, per più di mezzo secolo la sit-com si è imposta come uno dei formati televisivi più seguiti e amati. All’incirca 20 minuti di storia intermezzata da una decina di minuti di spot pubblicitari, per un totale di una mezzora di leggerezza spensierata, ma mai superficiale. La sit-com, nella sua forma canonica, era il genere che meglio rispondeva “a quel bisogno di niente” – che poi niente non era – come cantano Colapesce e Dimartino. Negli ultimi anni, improvvisamente e senza neanche accorgercene, siamo passati da una comicità situazionale, domestica e poco impegnativa, a una dimensione comica complessa e multiforme, degna del teatro antico, in cui le comedy non si accontentano più (solo) di farci ridere.
Dall’intrattenimento leggero allo strazio emotivo
La sit-com tradizionale mette in scena una rappresentazione genuina dell’interazione emotiva e sociale di personaggi fissi, circondati da un’ambientazione familiare. Al centro della vicenda ci sono situazioni ordinarie, in cui lo spettatore può immedesimarsi, capaci di dar vita a gag umoristiche. La situation comedy non nasce per snocciolare dei dilemmi esistenziali. Al contrario. Vuole esorcizzare la realtà, distraendoci da essa. Ci concede una tregua dalle brutture della vita. Ci permette di ridere con situazioni comiche e degli sketch umoristici semplici ma efficaci, la cui struttura è sempre la stessa. Ma anziché annoiarci, ci rassicura. Tanto lo sappiamo che prima o poi, da quella porta là, entrerà Fonzie ad aggiustare tutto. In ogni sit-com, considerata la lunghezza canonica delle stagioni, abbiamo l’opportunità di conoscere ogni personaggio, che da archetipo di una particolare tipologia umana diventa una persona reale. E più impariamo a conoscerlo, più ci affezioniamo, più siamo in grado di prevedere le sue mosse. Un gancio irresistibile, che ci afferra e non ci molla più.
La staticità della situation comedy è stata riproposta – e continua a esserlo – in ogni salsa, ma sempre in nome di un intrattenimento distensivo e confortante. Finché, nei primi duemila, iniziano ad arrivare delle sit-com dall’animo imprevedibile. Da quelle animate per adulti, mosse da intenzioni satiriche, fino a quelle serie tv vestite da situation comedy, come Scrubs (2001) o Modern Family (2009), che però ci preparavano alle comedy odierne, quelle dominate dallo strazio emotivo. Da Happy Days a La vita secondo Jim (2001), la sit-com è stata la forma narrativa dominante della serialità dagli anni ’40 agli anni ’10 del 2000. Sebbene non sia scomparsa, è innegabile che oggi abbia perso il suo primato e sia sempre più relegata in un angolino. Il panorama attuale, infatti, offre degli esempi sbiaditi. Molte delle sit-com più recenti sembrano essere nate vecchie, come The Ranch, Call Your Mother, Dad Stop Embarrassing Me o Call Me Kat con Mayim Bialik (Amy Farrah Fowler di The Big Bang Theory). A pensarci bene, l’ultimo e grandioso colpo di coda del genere arriva nel primo decennio degli anni 2000 con degli esemplari, ormai cult, che sebbene proponessero la stessa struttura e i topoi della sit-com, sapevano raccontare il presente e soddisfare le esigenze di uno spettatore in cerca di svago, ma anche di riflessione. Sono gli anni dell’irriverente 30 Rock (2006 -2013), Mom, Two and a Half Men, How I Met Your Mother e, appunto, delle sit-com firmate Chuck Lorre. Un genere che pur mantenendo la struttura tradizionale, attirava un pubblico vasto, dominando la scena e tenendo incollate sul divano intere generazioni. Proprio come sapevano fare – ognuna a suo modo – le classiche Friends, Happy Days, That ’70s Show eccetera, eccetera.
Risate? No, grazie
Proprio come uno spettacolo teatrale, la maggioranza delle situation comedy era accompagnata dalle risate, registrate sia in presa diretta che, in alcuni casi, aggiunte in post produzione. Un espediente divenuto, oggigiorno, un argomento talmente caldo da scatenare delle risse da bar. Un sottofondo che a molti, soprattutto ai più giovani, suona anacronistico. Le risate c’erano in Friends, c’erano in Happy Days e perfino in The Big Bang Theory. Eppure solo adesso ci facciamo caso. Nella sit-com tradizionale gli episodi sono a sé stanti, stand-alone. I personaggi e le relazioni fra di essi sono statici. Le trame sono pressoché verticali e, sebbene ci sia uno sviluppo orizzontale, gli eventi di ogni episodio si risolvono nell’episodio stesso. C’è un’iniziale situazione di caos, succedono cose, ridiamo a crepapelle oppure ci commuoviamo teneramente, ma alla fine lo status quo viene ripristinato. Sempre la stessa minestra, gustosa, tenuta in piedi da meccaniche tanto prevedibili quanto irresistibili. Degli espedienti parodiati fino all’eccesso da South Park con: “Oh my God, they killed Kenny!“.
Nelle sit-com degli ultimi anni, invece, la trama tende ad assottigliarsi sempre di più in una dimensione orizzontale dove si perdono i punti di riferimento. Definire Veep (2012), Parks and Recreation e Community (2009), Brooklyn Nine-Nine e Mom (2013), Superstore (2015) o One Day at a Time (2017) delle semplici sit-com – sebbene sia tendenzialmente corretto – è riduttivo poiché nascono con presupposti molto diversi. Happy Days, Alf, Mork & Mindy, Vita da strega o Una famiglia del terzo tipo, ad esempio, erano all’insegna dell’evasione pura. Dei luoghi confortevoli, dove c’era anche spazio per la riflessione, ma che nascevano per offrirci un rifugio; luoghi sospesi nello spazio-tempo, dove poteva succedere qualunque cosa di straordinario (perfino l’arrivo di alieni, streghe e supereroi). La sit-com classica portava in scena la vita quotidiana, ma saziava un desiderio innato di evasione, quasi puerile. Il fantastico si mescolava con le tematiche, tediose, della vita quotidiana, ordinaria e ripetitiva. E così, proprio dalle situazioni noiose nascevano delle gag esilaranti. I tempi comici erano scanditi dalla presenza delle risate che non ci infastidivano perché potevamo – anzi dovevamo – ridere. Oggi, invece, le risate ci infastidiscono perché, forse, non abbiamo più tanta voglia di ridere. E non certo perché non ne avremmo bisogno. Come non avremmo bisogno di qualcuno che ci dica in qualche modo cosa dovrebbe farci ridere e quando farci ridere.
Il mantra della comedy: colpisci più forte, nessuna pietà
Da Silicon Valley (2014), la versione tragicomica di The Big Bang Theory o The IT Crowd. Oppure i mockumentaries – il cui esempio più noto è The Office UK/US – che sotto forma di parodia, registrano la vita reale come fosse un documentario. Un genere, per altro, molto antico che affonda le radici nei lavori di Luis Buñuel e che sul finire degli anni ’90 esplode anche nella serialità. Pensiamo a Curb Your Enthusiasm di Larry David, una comedy sui generis che nasce proprio dalle ceneri di Seinfeld. Le comedy iniziano a parlarci, come Fleabag. Ci raccontano il lutto, come After Life, o la depressione, come BoJack Horseman. Ed è questa la differenza sostanziale tra le comedy odierne e la sit-com tradizionale. Anche in queste ultime trovano posto delle tematiche serie, perfino tristi, ma la finalità della sit-com è sempre stata, e sarà sempre, quella di tranquillizzarci. Vuole allietarci e distrarci, offrendoci una struttura prevedibile come conforto. Le nuove comedy, invece, vogliono confonderci. Cambiano continuamente forma al fine di distruggerci emotivamente. Non vogliono distrarci dalle bruttezze quotidiane: vogliono farcele guardare dritte in faccia.
Una è eterna, l’altra è un’eterna spina nel fianco
Pesiamo a Friends o All in the Family: la sit-com, in virtù della sua struttura, è eterna, non finisce mai davvero. Continua a esistere. In qualunque momento possiamo rivedere una puntata qualsiasi di una stagione qualsiasi di Will & Grace e ritroveremo tutti là, pronti ad accoglierci, avvolti nel morbido e tiepido calore dello schema verticale e autoconclusivo. Ma attenzione, la leggerezza e il divertimento, mai frivolo, per la situation comedy è un impegno serio. Venivano a casa nostra, senza sporcare. Si facevano voler bene, come si fa con un caro amico di famiglia. A volte si piangeva o si parlava di tematiche impegnative. Ogni tanto i toni si surriscaldavano, ma poi ognuno tornava alla propria vita.
Quando le comedy hanno smesso di mostrare delle situazioni ordinarie per prenderci a pugni nello stomaco hanno assunto delle forme diverse e sfuggevoli, come una trappola. Non sapendo come definirle, abbiamo iniziato a chiamarle dramedy. Un genere ibrido con cui indichiamo quelle serie tv divertenti, ma nemmeno tanto. Caro spettatore, ti attiro con la promessa di farti ridere, poi ti lascio più disperato di prima, in una pozza di lacrime amare. Quando una comedy finisce, finisce per sempre. Ma continua a vivere dentro di noi, come una spina nel fianco. Non possiamo accendere una puntata a caso di Fleabag o di After Life e sperare di trovare conforto. Non è possibile rifugiarsi in un episodio di BoJack Horseman. Riguardarle è impegnativo e doloroso, ma, sopra ogni altra cosa, niente sarà più come la prima volta. La pacchia, insomma, è finita. E ce lo fa capire Barry: il manifesto di una generazione di comedy che mettono in scena il vuoto esistenziale.
Non c’è posto per rifugiarsi
Il termine sit-com, oggi, è diventato sinonimo di serenità, di spensieratezza ed evasione. Pensiamo a Kevin Can F**k Himself del 2021: una versione “vera” della Vita secondo Jim, che si beffa della sit-com stessa, facendo a pezzi il genere, esasperandolo con i suoi cambi rapidi di fotografia, volutamente smarmellata, situazioni tragiche, che dovrebbero farci ridere, ma invece riflettono la drammaticità della realtà. Pensiamo all’episodio di Mr. Robot con Alf oppure a WandaVision (senza fare spoiler) che hanno utilizzato la sit-com come una via di fuga dal dolore. Perché era quella la sua funzione: un morbido salvagente. Il riflesso sereno di una realtà dove tutti vorremmo vivere. Dove c’è Fonzie, che alla fine rimette tutto a posto. Il dolore, invece, ha trovato un terreno nuovo nella comicità seriale, che nasce dalle ceneri della sit-com per trasfigurarsi in qualcosa di indefinibile, sempre mutevole, con finalità totalmente opposte.
La sit-com non è più la regina della serialità. Sono poche quelle degli ultimi anni che nascono con l’intenzione di intrattenere o di distrarre lo spettatore. Al loro posto sono arrivate le comedy, o le dramedy, che non hanno una struttura riconoscibile. Si presentano sotto varie forme, spesso sotto mentite spoglie, e arrivano per scavarci dentro. Fanno posto, s’insediano e poi se ne vanno, lasciando tutto in disordine. E no, Fonzie non arriverà a rimettere in ordine. Sebbene la qualità delle comedy di ultima generazione sia sublime, iniziamo a rimpiangere quel genere d’intrattenimento che non ci distruggeva l’anima. Oggi, nel 2022 la sit-com non ha senso. È un prodotto ideato per semplificare una realtà complessa , dalla quale lo spettatore voleva fuggire. Oggi, invece, la tendenza è quella di mostrare la complessità della vita reale, anche negli aspetti più crudeli e beffardi. La situation comedy deve avere una struttura definita, capace di accompagnarci per più di 20 puntate che allentano lo stress della vita quotidiana. Un lusso che la comicità seriale attuale non vuole concederci. Il calore familiare e la leggerezza – mai banale o superficiale – delle sit-com, ormai, è solo un ricordo.
Ma ogni tanto non avete voglia di rifugiarvi in una sit-com?
Iniziamo una comedy, illudendoci di passare qualche momento di serenità, ma ne usciamo devastati, più di prima. Non possiamo vedere Strappare lungo i bordi per farci quattro risate. Con Friends mettevamo in pausa i pensieri e non è un caso che ancora oggi, a 18 anni dalla messa in onda del finale, sia tra le serie più viste. Ridevamo, talvolta piangevamo, ma poi tornavamo alle nostre giornate, rigenerati. L’era dell’intrattenimento rassicurante che bevevamo a mo’ di tonico è tramontata, lasciando scoperto quel vuoto esistenziale che la sit-com voleva nascondere, se non altro per 20 minuti; più il tempo di qualche spot pubblicitario, che ci consigliava come far brillare il WC. Invece, dalle rom-com, come Love, alle sit-com leggere solo in apparenza, come Unbreakable Kimmy Schmidt; dalle dark comedy, come Succession o Girls, a quelle che solo in superfice sembrano delle banali soap-opera, come Jane The Virgin, le comedy ci attirano con un tranello, poi ci catturano e ci vomitano addosso tutti i nostri problemi.
Fonzie ci dava una pacca sulla spalla, ce li risolveva i problemi. Zerocalcare ce li sbatte in faccia, poi ci lascia là, a fluttuare nel vuoto, più rotti di prima.