Attenzione: l’articolo può contenere spoiler.
Nello sconfinato panorama seriale ci sono titoli diversi con collocazioni e sorti distinte. Ci sono serie tv che non vanno oltre il singolo episodio pilota e altre più fortunate, siano queste più o meno longeve. Indipendentemente dalla dimensione complessiva di un racconto ci sono narrative che, per un motivo o per un altro, si sono radicate nel ricordo di noi appassionati fruitori.
Che si sia grandi divoratori seriali o puri spettatori saltuari, ciascuno porta nel proprio cuore le tracce lasciate da quei finali di serie da cui fa ancora fatica a riprendersi e probabilmente mai ci riuscirà. Quale è il migliori modo di cicatrizzare la ferita provocata da delle scelte autoriali più o meno corrette se non proprio quello di provare a ripercorrere insieme i principali finali delle serie tv da cui non mi sono ancora ripresa? L’intento terapico di questo nostalgico flusso di coscienza è proprio quello di metabolizzare quei capitoli conclusivi che hanno avuto un impatto spiccato, sia per una direzione narrativa sofferta, sia per la costruzione di un’ottima dinamica che chiuda una florida storia o, semplicemente, per la fine di una grande cattedrale narrativa che per anni ci ha accompagnato. La condivisione è forse una delle cure più potenti in tutti i sensi. Ebbene, di seguito mi permetto di riportare le 10 serie tv il cui finale ha lasciato in me una voragine ancora tutta da colmare, sia in senso positivo che negativo (e sì, c’è anche Fleabag). Sta a chi legge decretare se dovrei esser grata o meno per il dolceamaro dolore impartito da questi show.
1) Skins UK (2007-2013)
Ognuno di noi ha quel rapporto speciale che lo lega, in senso positivo o negativo, alla prima serie tv che ha visto con trasporto. Se anche nel vostro caso si tratta di uno show come Skins UK, stringiamoci insieme in un caldo abbraccio. Il teen drama britannico diviso in tre generazioni di personaggi tormentati e spericolati è artefice di non pochi danni alla mia fragile psiche di adolescente ai primi approcci con la narrativa seriale.
Non soddisfatti delle sei stagioni realizzate, i creatori dello show (Bryan Elsley e Jamie Brittain) si sono dedicati a una settima e conclusiva stagione, invece che optare per uno spin-off su alcuni dei principali protagonisti. L’ultima produzione ha offerto una finestra sul futuro di tre dei personaggi più apprezzati e dinamici. I flashforward rimangono coerenti con la malinconica e cruda realtà rappresentata nelle stagioni precedenti. Così come lo show ci ha abituati, non c’è sempre un lieto fine: ed ecco che ritroviamo Effy, Cook e Cassie in tre coppie di puntate concentrate ciascuna su uno dei tre. Rispettivamente Skins Fire, Rise e Pure ci informano telegraficamente su come gli amati antieroi hanno passato gli ultimi anni, soprattutto in riferimento al modo in cui li avevamo lasciati al termine delle relative stagioni. L’ultimo capitolo non fa altro che catapultarci in un contesto amaro e crudele in cui gli amati personaggi non sembrano aver prospettive rosee.
La spiccata negatività con cui Skins UK ci ha raccontato bande di adolescenti difettosi non abbandona neanche in questo caso la storia anzi, carica ulteriormente la trama con drammi e catastrofi più o meno realistiche. Non bastavano le cruente perdite con cui lo show ci ha già segnati, anche nella sua ultima stagione la storia continua a tradire noi spettatori, decidendo di ferirci per l’ennesima volta. La settima produzione non ci priva di ulteriore dolore, con essa arriva la botta definitiva. Se pensavamo di esserci ripresi dall’inquieto percorso di vita dei protagonisti, Skins ci attacca per l’ultima volta. Come riprendersi dall’ennesima morte? Come superare la definitiva rottura di una delle coppie più amate? Come vedere a cuor sereno gli adorati giovani vivere afflitti in una realtà senza successo e speranze? Ancora una volta Skins UK ci fa del male, ricordandoci che, spesso e volentieri, neanche nella finzione il futuro può esser particolarmente luminoso.
2) Normal People (2020)
Da un dolore all’altro. La tv generalista ci ha riempito di storie d’amore, ma niente è equiparabile al grande vuoto lasciato dal finale di Normal People, miniserie irlandese del 2020. Che si abbia letto o meno il romanzo da cui la trasposizione seriale ha origine, lo show riporta con estrema delicatezza e fedeltà la storia di un rapporto di crescita e rinascita. Sarà merito di una messa in scena raffinata, fatta di un’elegante fotografia e morbida colonna sonora, ma il racconto è in grado di abbracciare lo spettatore e accompagnarlo in un percorso di scoperta e riscoperta dei personaggi e del sè.
Nonostante la storia abbia avvio con una rappresentazione distante dei due protagonisti ai tempi del liceo, nel finale i due sconosciuti sono ormai divenuti dei compagni che ci sembra di conoscere da tanto, sebbene non parlino molto sullo schermo. E’ nella difficoltà che Marianne e Connell hanno nel comunicare tra loro che si riflette la grande sensibilità con cui empatiziamo. Al termine di un quadro travagliato e fatto di lunghi silenzi, i due sembrano aver finalmente trovato la propria dimensione in cui riuscire in un scambio sincero. Nel momento in cui ogni cosa sembra al suo posto, la creatrice (Sally Rooney) decide di rompere l’agognato equilibrio, ma è nella rottura che lo show consolida il suo viaggio emotivo. I protagonisti sono cresciuti insieme, vicini e lontani, scontrandosi e ritrovandosi. Nonostante tutto, nonostante l’amore che li lega, la storia non è esclusivamente su una coppia, ma è una storia su quanto sia ordinariamente importante l’aiuto che solo una persona può dare a un’altra. Connell non sarebbe il Connell completo e stabile del presente senza Marianne e tutto ciò che hanno condiviso, e viceversa. Per quanto la separazione faccia male, ai personaggi e a noi spettatori, è l’arma più efficace per ricordarci che le persone hanno bisogno delle persone, cristallizzando il percorso di maturazione fisica e soprattutto psicologica dei suoi protagonisti. Poche parole, molte non dette, ma sufficienti ad animare i lunghi sguardi scambiati. Un finale doloroso ma giusto, ragione per la quale sarà sempre una cicatrice porterò con piacere.
3) The Office US (2005-2013)
E chi l’ha detto che non si possa soffrire con gli show di genere comedy? Ognuno ha la propria sitcom del cuore, nel mio caso un posto speciale è riservato a The Office (nella sua versione statunitense). Il fascino del suo finale sta nel ripetuto concetto per la quale c’è molta bellezza nell’ordinario. Infatti, la forza e originalità dello show stanno nella capacità di rendere comico un contesto che solitamente non lo è. Tra il reale e il surreale, la sitcom ha saputo avanzare un ritratto audace di un normale ufficio.
Nonostante un lieve calo nelle ultime (complice l’uscita di scena del grande Steve Carell), dopo ben nove stagioni è inevitabile lasciarsi emotivamente trasportare da un finale in cui tutto sembra andare al suo posto. Con lo sfondo del matrimonio tra Angela e Dwight, il racconto offre un lieto fine da respirare a pieni polmoni, seppur malinconico. Inutile negare la commozione nel vedere il sorprendente ritorno di Michael Scott appositamente per le nozze dell’ex-collega. Le rivalità e la forzata convivenza non sono più tali, dopo anni insieme i personaggi sono ormai una famiglia. Ogni cerchio si chiude e la scena conclusiva in cui i protagonisti danno il proprio commento sull’affetto per il contesto di lavoro, i colleghi, il documentario e il viaggio vissuto assieme è sicuramente uno di quei finali da cui non mi riprenderò mai.
Jim: Even if I didn’t love every minute of it, everything I have I owe to this job… this stupid, wonderful, boring, amazing job.
Jim: Anche se non ne ho amato ogni singolo minuto, tutto ciò che ho lo devo a questo lavoro… questo stupido, meraviglioso, noioso, fantastico lavoro,
4) The Good Place (2016-2020)
Mantenendo il discorso sul filone delle comedy, pochi finali mi hanno coinvolta emotivamente tanto quanto quello di The Good Place. In fondo, lo show americano della NBC è più di una semplice commedia, ma un racconto che sfrutta sapientemente il genere per veicolare un concetto sotteso più profondo. Utilizzando il lascito teorico dei grandi filosofi del passato, la serie impiega un linguaggio ironico per dilettarsi con gli schemi etici e morali delle comunità umane, proponendo una riflessione sul senso della vita stessa.
The Good Place è il perfetto esempio di una storia scritta concretamente bene. Le quattro stagioni condensano una trama fatta per articolarsi in esse: la serie ha un inizio e una fine, tutto ciò che nel mezzo si distende ha completamente senso e conferisce struttura alla conclusione. Quanto è soddisfacente fruire di un prodotto fatto bene e che non si perde per cogliere il favore dell’audience?
L’episodio finale è perfettamente coerente con la trama, seppur doloroso. Nonostante possa esser difficile capire e condividere la decisione dei protagonisti, questa è funzionale a elevare la serie al di sopra del resto delle comedy trasmesse negli ultimi anni. The Good Place non è soltanto un’ottimo comfort show con umorismo tagliente e fresco, ma un racconto raffinato ed educativo, una riflessione sulla moralità e bontà, ma soprattutto sullo scopo dell’esistenza umana. Senza scopo e stimoli non siamo che ridotti ad automi. E’ dura dire addio agli unici personaggi di cui, sin dall’inizio, ero sicura di non dover sopportare la morte, ma la spontanea genialità con la quale la storia si rivela rende l’epilogo uno dei migliori che abbia visto fino a ora ed è funzionale a consolidare l’intento comunicativo alla base dello show.
5) Sense8 (2015-2018)
Se il finale di The Good Place sembra la più adeguata e studiata conclusione per uno show ben fatto dal principio, non tutte le serie hanno lo stesso destino, come è il caso di Sense8. Il titolo Netflix era stato bruscamente cancellato dal colosso dello streaming nel 2017 dopo solo due stagioni. Insoddisfatti dall’interruzione senza una conclusione, i fan di tutto il globo hanno fatto sentire la propria voce facendo rumore online e ottenendo un finale speciale. Netflix ha accontentato gli spettatori realizzando un episodio di oltre due ore atto a dare un apposito finale alla storia. Il lungometraggio uscito nel 2018 è la ragione per la quale non riuscirò mai a riprendermi dal termine dello show. Seppur una realizzazione colossale, il finale è sicuramente più sbrigativo e rapido rispetto a quanto i creatori avevano pensato in origine. Non sempre le cose vanno come speriamo e Sense8 ne è purtroppo l’esempio. Un vero peccato veder sprecata una storia con così tanto potenziale a un finale che non ne ha permesso la totale espressione. La delusione non sta tanto nella risoluzione delle dinamiche interpersonali tra i personaggi, ma nel caotico modo in cui si è cercato di risolvere quanto più possibile. Nelle due precedenti stagioni tanta carne era stata messa al fuoco in modo intrigante e i tagli hanno tristemente comportato lo spreco di tante opportunità creative. Il disappunto è stato tanto, a malincuore, in questo caso il finale va menzionato in negativo.
6) Shameless US (2011-2021)
Un altro finale buono per metà è quello mandato in onda la scorsa primavera da Showtime con Shameless. Quando si tratta di grandi cattedrali narrative come in questo caso, le aspettative sono tante e difficili da soddisfare. Dopo ben undici stagioni di alti e bassi, la serie ha finalmente chiuso il suo cerchio in un modo neanche troppo definito. E’ chiaro che nel corso delle sue stagioni lo show abbia smussato la propria linea editoriale e si sia addolcito in relazione agli standard della tv generalista e alla diffusione di una coscienza sociale più attenta. Shameless è stato una delle prime ‘vittime’ della political correctness e della necessità di adeguarsi alla sensibilità di un pubblico più ampio. Ne ha pagato però l’autenticità dello show che ne aveva fatto il successo stesso.
Dunque, nonostante il graduale calo di tensione (complice la dipartita di Fiona), la serie è giunta autonomamente a un proprio finale che non soddisfa pienamente. Shameless è Frank, Shameless è quel capo famiglia assente e tossico in ogni senso possibile. Lo show non può essere tale senza il suo amato e odiato leader, ragione per la quale sembra giusto celebrare la conclusione di questa longeva storia con l’addio al suo pilastro. Frank ci lascia, ma la sua morte non è epocale: è una morte come tante altre di un uomo che non è come gli altri. E’ l’ultimo sguardo che il protagonista dà ai propri figli e amici a colpire, riportando proprio ai primi minuti introduttivi della serie. Quello di Frank è l’unico arco a concludersi, tutto gli altri personaggi vengono lasciati sospesi nel vuoto. Che si da trampolino per eventuali spin-off o ritorni? Nel frattempo mi accontento di questo finale parziale dal quale non riesco a riprendermi proprio per il sapore dolceamaro lasciato. Dopo tutti questi anni avrei preferito una conclusione più strutturata per ciascun Gallagher.
Per la recensione sul finale di serie di Shameless visita il seguente articolo.
7) It’s A Sin (2021)
Le miniserie hanno un cuore proprio e spesso godono di una forte emotività condensata in un numero ristretto di episodi. It’s A Sin ha una grande umanità ma, proprio a fronte della schiettezza con la quale la storia è trasmessa, è facile lasciarsi ferire dal racconto. Il finale di questa serie tv britannica rilascia tutta la tensione di cui la trama si è caricata nel corso delle cinque puntate. It’s A Sin racconta una delle tante tragedie che si sono abbattute nel corso degli anni Ottanta sulla comunità LGBTQ+. E’ la cura con cui la delicata realtà è portata in scena a permettere alla rappresentazione di emergere e rispettosamente sviscerare un tema così controverso. Per tutto il corso del racconto, l’irriverente storia di un gruppo di coinquilini e amici viene frastagliato da tragedie che ne colpiscono i membri. In un contesto storico ancora chiuso e pieno di pregiudizi, i giovani non hanno che il sostegno e amore reciproco. Dopo innumerevoli perdite giunge anche la scomparsa del protagonista: la morte di Richie non è l’apice del racconto, ma è il doloroso confronto tra sua madre e Jill a coronare la triste vicenda. Una storia sensibile e dal sapore documentaristico in grado di racchiudere aspramente la fragilità della vita umana e il triste epilogo di tante situazioni personali e familiari. Richie, Colin e Henry sono solo tre delle tante vittime che la vergogna e l’ignoranza hanno provocato. L’impotenza provata alla fine della visione è sconfortante: l’egoistico comportamento della madre del protagonista ci catapulta in uno scenario ostile e spietato, nel quale speriamo di riflettere la nostra realtà sociale ancora per poco.
8) Fleabag (2016-2019)
Tra una famiglia disfunzionale, un trauma difficile da superare e una vita sentimentale deludente, è facile empatizzare con la problematica esistenza di Fleabag, protagonista dell’omonimo show britannico. La frenetica vita della donna è divisa tra difficoltà finanziarie e problemi di cuore. Nel tormentato viaggio della protagonista siamo progressivamente proiettati in un amore impossibile: nonostante la consapevolezza dell’irrealizzabile relazione che si instaura tra Fleabag e The Priest siamo totalmente catturati e trasportati dalla chimica fisica e psicologica che si instaura tra i due. Proprio per questo, il duro colpo che riservano gli ultimi minuti della seconda stagione della serie sono una vera lacerazione emotiva. Anche quando le cose sembrano andare per il verso giusto, Fleabag riceve l’ennesima delusione e noi non possiamo far altro che assistere alla manifesta fragilità di due figure divise in nome di una morale più forte.
Fleabag: I Love You.
The Priest: It will pass.
Fleabag: Ti amo.
Prete: Passerà.
Noi ci illudiamo insieme alla protagonista, sognando con lei un futuro più luminoso. Ed è quando sembra che Fleabag abbia trovato la persona che la capisca veramente, in grado di abbattere ogni sua difesa, il destino si fa beffardo. Per sempre impresso in me sarà l’ultimo sguardo che la protagonista rivolge alla camera prima di andarsene e intraprendere un nuovo percorso di vita, sia questo più o meno doloroso dei precedenti.
9) Dark (2017-2020)
Parlando di serie che sono ormai cult è impossibile terminare questa lista senza citare il capitolo conclusivo di Dark. Apprezzata o meno la sorte riservata ai suoi personaggi principali, lo show tedesco ha sicuramente offerto un percorso carico di tensione e colpi di scena. In un continuo susseguirsi di plot twist perfettamente calibrati e connessi, tutto quadra in una trama densa e sensata. Inutile negare che i giorni successivi alla visione dell’ultima puntata sono stati difficili da affrontare. In un panorama televisivo così vasto, Netflix ha realizzato un racconto che ha portato l’intrattenimento audiovisivo su un altro livello. Come nel caso di The Good Place, Dark ha avuto il coraggio di arrestarsi al massimo del suo successo e della sua espressione narrativa (ne abbiamo parlato anche qui). Un finale sofferto e per nulla scontato, ma non sbagliato. Il sacrificio di Jonas e Marta si incastona nello spazio e nel tempo del racconto in nome di un equilibrio e una pace ben più grandi.
I risvolti drastici sono quelli che più rimangono impressi. Accettare la presenza di una realtà parallela in cui molti personaggi chiave non sussistono è triste, ma conferisce allo show quella vena drammatica e malinconica che ne impreziosisce la rappresentazione. Una trama fitta e complicata che si dota di un epilogo amaro. Forse non colossale al pari della storia complessiva, ma che corona un percorso costruito sapientemente in tre epocali stagioni di cui si parlerà ancora per molto e da cui non mi sono ancora ripresa, neanche a seguito dell’ennesimo rewatch.
10) The 100 (2014-2020)
Uno dei finali più deludenti proposti dalla tv americana degli ultimi anni è quello dello show CW The 100. Dopo le prime cinque stagioni in cui l’intensità del racconto è rimasta stabile, le ultime due sono state un percorso in caduta libera. A fronte del progressivo deterioramento della trama, il finale non poteva che essere un disastro. The 100 è stata per diverso tempo una delle serie tv la cui uscita ho atteso di più, ed è stato altrettanto sconfortante assistere al degradarsi di una narrazione così avvincente. In una conclusione in cui molti dei personaggi principali tradiscono la propria natura e prendono decisioni in contrasto col percorso di crescita intrapreso fino a quel momento, molti punti rimangono in sospeso. Partendo dall’avventata scelta di Clarke di uccidere il compagno di sempre, Bellamy, lo show abbandona quanto costruito in nome della drammaticità e dell’effetto sorpresa (che poi di sorpresa ce ne è veramente poca). The 100 si è spesso mostrato spietato con molte delle sue figure e non ci ha mai privato di morti clamorose, ma la scelta di liquidare il personaggio di Bob Morley sembra tutt’altro che congruente con la direzione seguita fino a quel momento. Che poi la morte del coprotagonista non è nemmeno nell’ultima ufficiale puntata dello show, ma è l’esempio più eclatante di una serie di scelte autoriali discutibili e paradossali. Un funerale sconfortante di uno show morto da tempo: da quando le cruente battaglie in nome di terre, potere e sopravvivenza hanno lasciato il posto a nuovi mondi e ideali religiosi non particolarmente avvincenti. Nonostante l’happy ending per Raven, Murphy e Octavia (gli unici main interessanti), il capitolo conclusivo della serie sci-fi è davvero deludente e emblematico del triste declino della sua storia. Un vero peccato perchè era partita alla grande.