The Wire non era una serie che aveva ascolti particolarmente esaltanti. Aveva uno zoccolo duro, ma era ben lontana dall’essere I Soprano, per impatto socioculturale, ancor prima di arrivare a parlare di fruizione, indiscutibilmente il prodotto di punta della HBO. Ogni stagione si riproponeva, per i vertici della rete via cavo, l’atroce dilemma sul rinnovarla oppure cancellarla.
Se conoscete The Wire saprete le sue caratteristiche e il cast corale da cui è composta. I dati di ascolto erano un bel peso da sostenere a dispetto di un budget tutt’altro che insignificante per produrla, ma dall’altro lato erano consapevoli di avere tra le mani qualcosa di unico. Qualcosa che avrebbe influenzato il genere televisivo negli anni a venire. Così l’arcano si risolveva sempre a favore di un rinnovo, dando a David Simon la possibilità di completare il suo “romanzo televisivo”. Una fiducia cieca, motivata, per utilizzare le parole di chi dirigeva l’emittente con “noi siamo l’HBO”.
D’altra parte questo è stato proprio lo slogan della cable tv per decenni: “It’s not tv. It’s HBO”
Una dichiarazione di intenti molto forte, volta a prendere le distanze dalla tv generalista, alla fine degli anni Novanta in crisi come mai prima di allora. E una rete via cavo che da pochissimi anni si era affacciata al mondo delle serie tv – salvo qualche trascurabile eccezione la prima serie della nuova era è stata Oz nel 1997 – non può dare la percezione di perdersi già in queste “volgarità” come i dati di ascolto. HBO doveva dimostrare di saper osare e osare significava salvare The Wire, all’epoca accollandosi il rischio, ma oggi consegnandoci un capolavoro liminare. Significava stravolgere i canoni stilistici del piccolo schermo, significava ribaltare la narrazione e la concezione di serialità, dando un’accelerata enorme a un cambiamento già in atto.
Oz stessa era stata per prima qualcosa di nuovo, di diverso, di mai visto. Sia per le tematiche trattate, sia per il linguaggio crudo e le scene più impressionanti. D’altra parte è il “vantaggio” di una tv via cavo, fruibile attraverso la sottoscrizione di un abbonamento e, pertanto, meno esposta ai filtri che la tv generalista deve tener conto data la trasversalità del suo pubblico. Già mentre Oz andava in onda con le primissime stagioni, ancor prima che la rivoluzione televisiva fosse interiorizzata gli spettatori, la HBO raggiungeva uno dei suoi picchi più elevati e tutt’ora ineguagliati, regalando al mondo I Soprano.
Alan Sepinwall, famosissimo critico statunitense, al quale grazie al suo lavoro nel libro ‘Telerivoluzione’ dobbiamo l’aneddoto con cui abbiamo aperto questo articolo, specifica senza possibilità di fraintendimenti che esiste un prima e un dopo I Soprano. E questo vale per molti aspetti. C’è un prima e un dopo I Soprano per la complessità introspettiva dei personaggi; c’è un prima e un dopo I Soprano per ciò che concerne la struttura degli episodi, spalancando le porte a stagioni da 10 o da 13 puntate da 60 minuti l’una; c’è un prima e un dopo I Soprano per la HBO stessa, che si afferma come un player di primissimo piano nel nuovo scenario televisivo.
Come esiste un prima e un dopo I Soprano, esiste un prima e un dopo Game of Thrones
Nei primi anni Duemila HBO ha continuato a innovare e a sperimentare. Sono arrivate Six Feet Under, con una concezione filosofica del tutto inedita sul senso della vita e della morte, Deadwood, a rilanciare la maestosità di un genere come quello western. Boardwalk Empire e la sua epopea criminale americana ai tempi del proibizionismo. True Blood, poiché anche i teen drama hanno una piena dignità letteraria. Di pari passo la rete porta a una compiutezza qualitativa anche il livello delle miniserie ad alto budget. Ancora oggi resta inarrivabile la maestosità evocativa di Band of Brothers, la testimonianza più vivida e cruda della seconda guerra mondiale in forma sceneggiata; True Detective ha proiettato il genere crime su di un’altra dimensione; The Night Of è una critica sociale di una raffinatezza estrema.
Nell’ambito comedy la rivoluzione era stata già avviata prima del nuovo millennio, con Sex & The City, una serie che ha rotto diversi tabù sul sesso, a partire da come se ne parla e chi ne parla. A livello di successo globale nei format da 20 minuti a episodio, questa resta un’eccezione per HBO, che tuttavia non manca di offrire nuove sperimentazioni anche in questo campo: Entourage, una serie che offre uno spaccato sullo star system hollywoodiano, ad esempio, o Silicon Valley. La cable tv più famosa d’America si è costruita, in sostanza, una reputazione solidissima, diventando la casa dei prodotti di qualità sopraffina e facendo da apripista ad altre emittenti. La HBO influenza e apre la competizione a tutte le altre, vecchie e nuove, in particolar modo per ciò che riguarda gli autori coinvolti nelle produzioni e per i canoni stilistici ormai interiorizzati dal grande pubblico. Per dirne una, ad esempio, non avremmo mai avuto Don Draper senza Tony Soprano.
In mezzo a questi prodotti, a soli 3 anni dalla fine de I Soprano – proprio a sottolineare la velocità con cui questi cambiamenti vengono introiettati dagli spettatori – arriva Game of Thrones. E tutto lo scenario si ribalta ancora una volta. Game of Thrones è una serie trasversale, anche oltre ogni più rosea aspettativa iniziale per la HBO. Riducendo all’osso tutte le considerazioni che si possono fare, GoT è evidentemente un drama politico, una serie storica, una storia di rivalsa femminile con personaggi femminili forti e sfaccettati, un fantasy, un thriller splatter. Banalmente qualsiasi spettatore trova un motivo per farsela piacere e infatti parliamo del fenomeno di maggior culto degli ultimi 15 anni.
La HBO passa da essere la tv “antitelevisiva” a produrre la cosa più mainstream in circolazione.
GoT è stata infatti un’esperienza collettiva e le esperienze collettive di questa portata, fino a qualche anno prima, erano appannaggio della sola tv generalista, se pensiamo a ciò che è stato Lost. Quella di JJ Abrams e Damon Lindelof è una serie meravigliosa, ma indubbiamente si porta dietro tutta una serie di criticità o conseguenze che sono appunto effetto delle dinamiche “di massa”: i rinnovi vincolati all’audience, la necessità di allungare il brodo per massimizzare i profitti, budget più esigui che si traducono in qualità audiovisiva non sempre all’altezza di determinati standard. La HBO prospera proponendosi all’antitesi di tutto questo, diventando espressione di quel concetto che in Boris traducono con “un’altra tv è possibile”.
Ma è naturale e fisiologico che il successo di Game of Thrones, che ha rotto ogni record di ascolto, di popolarità e di budget, avrebbe cambiato le carte in tavola. Il target è diventato più ampio, questione di cui non si può non tener conto; HBO ha dovuto ridefinire la propria offerta in base alla nuova reputazione, dando vita a prodotti che fossero più digeribili da un pubblico più sfaccettato. Ma gli effetti si sono visti in particolar modo dopo la fine di GoT, la quale fungeva da specchio per le allodole per continuare a produrre serie in linea con la golden age.
Nel frattempo, tuttavia, è cambiato il panorama tutto intorno alle serie tv. L’ascesa di Netflix e poi, più in generale, delle piattaforme streaming, hanno ulteriormente ridefinito le priorità degli utenti e, di rimando, delle emittenti televisive. Siamo entrati in quella fase che il general manager di FX ha definito ‘peak tv’ per indicare un’era in cui si produce più di quello che è ragionevolmente possibile guardare. Anche HBO si è dovuta confrontare con questo segmento lanciando Max, la propria piattaforma (non ancora arrivata in Europa).
Poi è arrivata la pandemia che, come in tutti gli aspetti della nostra vita, personale e professionale, ha accelerato una serie di cambiamenti che erano già in atto.
In un contesto in cui il tempo di fruizione delle serie stava già subendo una flessione, il lockdown ci ha obbligati a stare davanti a uno schermo più ore di quanto avremmo voluto. Con il graduale ritorno alla normalità l’industria dell’intrattenimento ha conosciuto un brusco calo. Il risultato è stato che l’interesse globale si è concentrato attorno a pochi titoli di forte richiamo. Come se non bastasse, la pandemia ha influito in maniera determinante anche sui costi di produzione creando un impasse anche per ciò che concerne i contratti degli addetti ai lavori. E veniamo appunto da uno sciopero di sceneggiatori e attori che ha sostanzialmente paralizzato la produzione, almeno per ciò che concerne il 2024. Secondo Il Post si arriverà inevitabilmente a uno scenario in cui si produrranno sempre meno serie e sempre più trasversali, pertanto semplici e accessibili.
Il profitto è la longa manus che muoverà la produzione d’ora in avanti e HBO non fa e non farà eccezione. In un panorama in cui ci si lega sempre più a remake, spin-off e riadattamenti letterari, le due serie di maggior successo degli ultimi due anni della rete sono The Last of Us (riadattamento del noto titolo videoludico, qui le recensioni) e House of The Dragon (sempre all’interno dell’universo GoT). E se un titolo non rende lato ascolti si taglia senza troppi rimpianti. Le prime avvisaglie si erano avute già con Vinyl, nel 2016, ma è con WestWorld che si è chiuso tristemente in negativo quel cerchio aperto con The Wire. A fronte di una prima stagione perfetta, la serie di Jonathan Nolan e Lisa Joy si è un po’ attorcigliata su se stessa, finendo per perdere ascolti ed essere brutalmente cancellata, senza un finale, dopo la quarta stagione.
Ovviamente non tutto è da buttare. Accanto a questo ammiccamento al mainstream abbiamo avuto comunque produzioni dalla qualità indiscussa, come Succession. E per una Winning Time cancellata, abbiamo comunque una The White Lotus ancora rinnovata. Ma scordiamoci la fase d’oro in cui il profitto economico non era una priorità, prendendosi il lusso di battere i piedi e combattere per il rinnovo di The Wire. Scordiamoci chissà quante produzioni ad alto budget nei prossimi anni. Magari approfittiamone per recuperare qualche capolavoro HBO che ci è sfuggito. E, per non farci troppo il sangue amaro, divertiamoci a capovolgere lo slogan storico della rete, declinandolo alla mercé delle nuove esigenze televisive: It’s not HBO, It’s Tv.