I cartoni animati, quella inesauribile fonte di avventure, che però nella realtà non erano mai lontanamente avvincenti come quelle che vedevamo in tv. Ma quanto erano belli i cartoni dell’infanzia come Heidi, Holly e Benji o Remi? Che ci hanno lasciato dei ricordi indimenticabili, ma anche tanti di quei traumi che ci porteremo fin nella tomba. Danni psicologici insanabili, come quelli causati da Esadecimale, Skeletor e tutta quella marmaglia di personaggi spaventosi che vivevano in perenne agguato, pronti a trascinarci con loro sotto al letto. Se anche tu sei cresciuto a pane, burro e televisione, i ricordi seriali d’infanzia rappresenteranno sicuramente un morbido rifugio nelle giornate più buie. Ti hanno sicuramente trasmesso tanti insegnamenti preziosi, come quell’insana tendenza all’ipocondria. E scommetto che ti hanno portato a fare tante sciocchezze, come tagliarti da solo i capelli di un caschetto inguardabile per somigliare a Fantaghirò o a impomatarti per sembrare Goku. Ne ho buttato due a caso, ma ho l’impressione di esserci andata vicino. Alza la mano però, se anche tu, conservi ancora oggi nel fondo più profondo dei cassetti chiusi a doppia mandata, quei ricordi non detti, quegli aneddoti assurdi e troppo intimi per essere rivelati. Quelle abitudini che non hai mai confessato per paura di essere portato via dagli omini bianchi di Siamo Fatti Così e venire internato per sempre in un manicomio psichiatrico. So che li hai. Quindi, ora, chiudi gli occhi e fai un respiro profondo. Visualizza le caprette che ti fanno ciao e lasciati trasportare delle note iniziali della sigla di Heidi.
Li vedi? Vengono proprio verso di te. Sono quei ricordi di cui ancora ti vergogni.
Quelle cose folli che facevi in nome dei tuoi cartoni animati preferiti. Perché lo so che quando nessuno ti vedeva, facevi delle cose assurde. Che forse hai rimosso o che non vuoi ricordare. Non ti preoccupare: se il pudore ti blocca, io che della parola pudore non ho mai saputo che farmene, mi immolerò per te. Inizierò per prima questo assurdo viaggio lungo il viale dei ricordi. Il viale non è ovviamente quello illuminato e roseo, quello popolato dai bei ricordi dei bicchieri mozzicati delle feste; quello dalle settimane passate a pianificare il costume di carnevale giusto oppure quello delle ricreazioni che volevo non finissero mai. Parlo dell’altro viale. Quello stretto e scomodo, pieno d’insegne luminose fulminate, con Heidi che mi ossessiona con i suoi maledetti panini e quell’ingrato di Peter Pan che non ha mai trovato la strada di casa mia.
Nessuna paura, nessuna timidezza: abbracciamoci e condividiamo le nostre stranezze infantili, perché in fondo dicono ancora tanto di quello che siamo diventati.
Puffi, non importa come, non importa quando: io vi troverò!
Gargamella non era l’unico pazzo a inseguire quegli strambi ometti blu. Li ho cercati per tutta l’infanzia. Sotto ai sassi, tra i cumuli di foglie secche e di erba tagliata. L’erba del prato, sia chiaro. Ho teso loro delle trappole. Ogni volta che mi avvicinavo a un gruppetto di funghi nel bosco, correvo per scovare qualche traccia che mi conducesse al loro pittoresco insediamento urbano. Cristina ci ha dato delle indicazioni inequivocabili: “nel bosco li vedrai”. Sono alti “due mele e poco più”. Una mela quanto sarà alta: 15 centimetri? Pensavo. Quindi come è possibile che un esserino di 30 centimetri sfugga alla mia vista? I Puffi sono un centinaio. Dunque come è puffamente possibile che cento creaturine alte più della metà di mezzo metro, con un insediamento articolato come il loro, riescono a nascondersi ancora così bene?
Così i mesi passavano e, con loro, la smania di trovarli si è trasformata in preoccupazione per i brufoli e per gli sbalzi ormonali. Ma non ho ancora smesso di cercarli. Per anni mi sono assicurata che i peluche di Bontina, Puffetta e Grande Puffo, che avevo trovato in regalo in qualche uovo di Pasqua, non si animassero durante la notte. Li coprivo con cura, per evitare che prendessero freddo. Poi la mattina mi svegliavo prima dei miei, per togliere loro la copertina. Intuivo che quel comportamento poteva sembrare (vagamente) sospetto agli occhi di terze parti. Così li osservavo solerte per interminabili ore: prima o poi faranno un passo falso. Dovranno pur sgranchirsi, come fanno in Toy Story!? E invece, quei maledetti Puffi sono stati più furbi di me, di te e di quel pazzo di Gargamella. Che in prospettiva, tanto pazzo non sembra più.
Quegli appetitosi, succulenti, effimeri panini di Heidi
La fonte della mia ossessione culinaria, che nessuno Zafferano di Navelli o Manzo Wagyu potrà mai eguagliare: quegli stramaledetti, soffici e profumati panini che Heidi scopre a Francoforte. Heidi sapeva che la nonna di Peter li avrebbe apprezzati. Quello che non sapeva è che intere generazioni di bambini, me compresa, sarebbero cresciuti bramando di assaggiarli e spezzarli con le proprie mani. Ti basta googlare “ricetta panini Heidi” per scoprire quante persone ne sono ancora ossessionate. Io ho persino provato a nascondere nel mio armadio una decina di panini all’olio della Mulino Bianco. Ma non hanno preso né l’aspetto né il sapore di quelli della ragazzina montanara. Perché io il loro sapore lo conoscevo bene, pur non avendoli mai assaggiati. Sapevano di colazione della domenica, di pomeriggi senza compiti e della soddisfazione di aver conquistato l’ultima fila sul bus per andare in gita. Ma non erano solo i panini di Heidi a ossessionarmi: c’era il formaggio filante del nonno di Heidi, il pane scuro e il latte spumoso di Bianchina che, a confronto, rendevano insulsa ogni pietanza reale.