Peter Pan, perché non sei mai venuto a prendermi?
Non riuscendo a trovare l’Isola Che Non C’è in nessuna delle cartine che i miei tenevano al lato dello sportello del passeggero, e non capendo nemmeno quale fosse la seconda stella a destra (ma poi, a destra di cosa?), non restava altra scelta. Se Maometto non va alla montagna, allora Peter Pan doveva venire da me. Non era questo il detto, ma io lo interpretai così. Tenni la finestra aperta per tante, troppe notti. Anche in pieno inverno. I vantaggi di essere figlia unica andavano pur sfruttati in qualche modo: si vive soli e si muore (di freddo) da soli. Le notti passavano, ma di Peter, nemmeno l’ombra. Mi sarebbe bastata quella per provare la sua esistenza, ma niente: lui non mi diede mai alcuna soddisfazione. Posizionai anche dei piccoli oggetti rumorosi sul davanzale della finestra per essere svegliata al suo passaggio. Alla fine, rassegnata, la finestra l’ho chiusa. Ma la tentazione di riaprila per farmi portare via su l’Isola Che Non C’è non è svanita. E non svanirà mai.
Firmato: La principessa Zaffiro
Non ho idea di quante persone ricordino questo cartone animato, una serie tv giapponese tratta da un manga e arrivata in Italia con vent’anni di ritardo. Non ricordo molto del cartone in sé, ma ricordo benissimo i suoi effetti su di me. La principessa del regno di Silverland era una tipa tosta. Altro che Cenerentole, scarpette e principesse narcolettiche. Suo padre voleva un maschio, invece si è ritrovato con una femmina. Al di là delle implicazioni culturali, e delle velate interpretazioni misogine, Zaffiro è la prima del suo genere. In sella al suo cavallo, precorre i tempi, ancor prima di Lady Oscar, e ci insegna che “noi femmine” possiamo cavalcare, tirare di scherma, combattere i cattivi e che non dobbiamo mai aver paura. Come ho detto, ricordo poco della trama, ma ogni mio disegno di infanzia era firmato con il suo nome. E a detta dei miei, pretendevo di essere chiamata “La Principessa Zaffiro”, anche dalla maestra.