Hunters si era presentata al pubblico come la next big thing della serialità americana: un cast stellare, una trama familiare ma sempre avvincente e la promozione della continua lotta tra bene e male, in un mondo in cui tutto diventa lecito pur di mettere la parola fine su una delle più grandi piaghe della storia dell’umanità. Dopo la sua conclusione, probabilmente ci si aspettava un impatto maggiore, ma c’è anche da dire che le serie brevi, a noi tanto care, ormai non vanno più di moda, per quanto sia semplice lamentarsi delle lunghe minestre riscaldate. Eppure, a noi è piaciuta eccome, e oggi vi proponiamo una analisi più “colta” di quello che ci ha lasciato.
Non proseguire con la lettura per non imbattersi in SPOILER sulle due stagioni di Hunters.
La questione Tarantiniana
Hunters è stata etichettata abbastanza velocemente come “serie tarantiniana”, il che può far piacere a molti, ma rappresenta anche un grosso peso da trainare sulle spalle, soprattutto dando per scontato che la maggior parte del pubblico di riferimento della serie è appassionato, se non cultore, del cinema di Quentin Tarantino. Ed effettivamente, tralasciando lo splatter e l’irriverente comicità a tinte black, i riferimenti al regista americano si sprecano. Lo scenario è sicuramente propenso a questo tipo di narrativa: un mondo in cui i nazisti non hanno realmente perso la guerra, ma si nascondono nei posti più disparati e tramano un nuovo complotto che li riporti al vertice. Dall’altra parte, un uomo risoluto e misterioso, Meyer Offerman, un ebreo arricchitosi in America dopo essere sopravvissuto alla Shoah, mette su uno squadrone della morte composto da una finta suora con le vibes di Uma Thurman in Kill Bill, un attore fallito vittima dei vizi e del proprio ego come il buon Rick Dalton, una super eroina di tutti i giorni alla Jackie Brown, una coppia anziana di spie mancate e un ninja sopravvissuto alla guerra e pronto a utilizzare la propria rabbia come arma letale. E poi la ciliegina sulla torta del cinema di supereroi americano, il giovane reietto, buono e affabile e con un catastrofico passato alle spalle, il protagonista in cui rivedersi fin dall’inizio della narrazione.
E gli ingredienti per un super show americano ci sono tutti. Già di per sé la questione nazista risulta essere uno dei temi narrativi più gettonati negli States, in particolare da Prime Video, se si pensa ad altre produzioni colossal di successo come The Man in the High Castle e persino The Boys, se poi ci aggiungiamo il fatto che il cast è di quelli delle grandi occasioni, capeggiato da mister Al Pacino e condito da elementi come Logan Lerman e Josh Radnor (che tra l’altro a volte sembra interpretare Ted Mosby che in un universo parallelo dà la caccia ai nazisti), allora abbiamo proprio l’impressione di essere di fronte ad un cult in pieno stile Pulp culture. Il problema di Hunters sorge nel momento in cui le scelte registiche tentano di rendere chiari i riferimenti a Tarantino, tra movimenti di camera esasperati e brusche rotture narrative per inframezzi. Tuttavia, anche questi elementi non sono da leggere negativamente, soltanto portano il livello del prodotto completo, per forza di cose, ad uno step successivo, in cui il paragone finisce per essere obbligatorio.
Ma infine, Hunters rivendica la propria identità
Forse più nella seconda stagione che nella prima, Hunters dimostra di avere delle basi ben solide e autentiche, complice l’essersi liberati di un “peso” come Al Pacino, dal momento che il suo straripante carisma tendeva inavvertitamente a mettere in ombra la crescita degli altri personaggi. Il secondo capitolo di Hunters promuove una coralità decisamente più forte rispetto al primo, in cui l’unica storia a spiccare realmente era stata quella dei coniugi Markowitz, oltre che alla sottotrama principale del protagonista, ovviamente. L’ultima stagione, invece, porta alla ribalta tutti gli altri elementi dando al pubblico il giusto tempo per familiarizzare con loro e con le loro storie, rendendo il gruppo più credibile oltre che più solido. E questo è decisamente un punto a favore della serie, che rivendica il suo ruolo di serie tv (e non di film cult) in cui il ritmo frenetico iniziale lascia spazio all’introspezione e alla decantazione psicologica di tutti i protagonisti. Lasciando da parte Tarantino poi, in Hunters troviamo diversi elementi che evocano un immaginario davvero interessante. L’episodio intitolato La casa è una vera e propria parabola che si beffa dell’ottusità del male: i nazisti che si recano a casa dell’anziano architetto per indagare sul suo presunto tradimento al Reich sono dipinti come sempliciotti, incapaci di comprendere di trovarsi all’interno di una reggia segreta realizzata ad hoc per nascondere decine di ebrei. L’intera puntata funge da elegante inframezzo tra la cattura di Hitler e il seguente processo pubblico e mediatico, è una storia nella storia che oltre a rappresentare il reale spirito umoristico della serie incentrata sulla caccia ai nazisti, intrattiene e ammalia tra geometrie quasi fiabesche e un ritmo altalenante da cardiopalma.
L’elemento che però ci ha colpito di più, e che avvalora la tesi dei riferimenti propriamente morali sparsi all’interno della serie, è rappresentato dal coniglio di Hitler, che in un certo qual modo viene utilizzato dallo stesso dittatore come mezzo per plagiare l’integrità mentale di Joe e renderlo un suo soldato obbediente (davvero c’era qualcuno che pensava che il fido scudiero di Meyer avrebbe tradito i suoi compagni fino in fondo? Velata critica). Il coniglio diventa il migliore amico di Joe, che durante il suo addestramento si rilassa accarezzandolo steso su un prato. Ma questo animale è la chiave di lettura della serie: Hitler vive nascosto, ma viene stanato e inseguito, portato in pubblica piazza e poi nuovamente acciuffato sul negativo in extremis di fuga definitiva. Hitler è quel coniglio che per decenni ha vissuto da fantasma, senza dover cambiare nome o aspetto fisico, crogiolandosi nel lusso e nello sfarzo, ma soprattutto tra le calde braccia del suo enorme ego. Hitler è quel coniglio che, messo di fronte all’evidenza, nega fino alla fine, finché proprio il suo orgoglio non lo fa vacillare, costringendolo ad ammettere di essere stato lui l’artefice del genocidio. Ed infine, non è la prospettiva di passare gli ultimi anni di vita in una cella piccola e fatiscente a spaventarlo, bensì la presa di coscienza che, da lì in avanti, verrà trattato come uno dei tanti, come un criminale qualsiasi, che ha vissuto come un leone ma che, in fin dei conti, ha scoperto di essere soltanto un coniglio.