La storia di Joaquin Phoenix è una storia di vagabondaggi, miseria, abusi e sette perverse. È una storia di morte e rinascita continua, inesausta ma fiaccante, capace di lasciare una cicatrice dopo l’altra sul volto dell’attore che abbiamo imparato ad amare.
Rinasciamo dalle nostre ceneri, torniamo alla vita, siamo Fenice. Quelle parole il piccolo Leaf le ricorda bene, le ha portate sempre dentro di sé, anche se forse non le ha capite subito. Si sarà chiesto come si può rinascere dopo tanto male, dopo tante privazioni fisiche e psicologiche. E poi, perché si deve morire per rinascere? In fondo era già nato una volta, alla fine dell’ottobre del ’74, in un luogo tutt’altro che ospitale, a Porto Rico, sotto un cielo tanto grande quanto freddo. E morire per rinascere di nuovo, forse, non era tra le sue priorità.
Eppure tutto era nato da quella bellissima illusione che negli anni Settanta andava sotto il nome di amore. In quel momento negli USA l’onda si ingrossava come un mare in tempesta: un’onda di amore, libertà, giustizia, animata dalla ferma, incrollabile convinzione di essere nella ragione. Arlyn in nome di quella libertà aveva cambiato nome in Heart, era fuggita dall’illusione della borghesia, dall’ipocrisia della famiglia americana modello. Aveva preso le sue poche cose e senza guardarsi alle spalle si era messa in strada, on the road, seguendo il flusso, cavalcando l’onda di una beat generation più viva che mai. E quell’onda di amore le aveva fatto incontrare, sul ciglio di una highway, John. Un passaggio, quattro chiacchiere, la libertà di piacersi e amarsi. Neanche un anno ed Heart e John erano sposi, felici, liberi, rinati come fenici dalle loro vite troppo ordinarie e conformiste.
Heart e John si erano promessi una cosa: di non perdere mai più quella libertà, di abbracciare in pieno la vita, di cavalcare l’onda di un amore libero che sommergeva tutta l’America. E così, on the road, fedeli alla linea, avevano iniziato il loro girovagare, sposi innamorati, giovani, liberi o convinti di esserlo. Da una comunità hippie all’altra erano approdati fino in America Latina. E lì, dopo River e Rain era nato Joaquin, anche se presto, per allinearsi ai suoi fratelli, il piccolo inizia a farsi chiamare Leaf, foglia, esile ma elegante. La libertà assoluta per un bambino, però, non è la cosa più semplice da gestire. Leaf e i suoi fratelli hanno piena autonomia, decidono tutto di comune accordo con quelli che più che genitori considerano fratelli maggiori. Scorrazzano per le strade di Porto Rico elemosinando e improvvisando balli e canti. Vivono senza niente, a volte soffrendo la rinuncia al consumismo borghese. Ma più di questo soffrono per una libertà che a dosi eccessive capiscono presto trasformarsi in mancanza. Mancanza di figure genitoriali, di convenzionalità e stabilità.
La povertà – che una libertà totale esige – fa sentire i suoi morsi, li spinge a mendicare.
Nel frattempo l’onda si stava infrangendo in tutta America andando a ritirarsi in una secca senza scampo. Guardando a nord, Heart e John potevano quasi vedere il segno dell’acqua alta, il punto in cui sogni di libertà e amore si erano infranti sul muro di droga e repressione. Ma continuavano a sperare, desideravano continuare a sperare nella loro idea di libertà, disposti a chiudere gli occhi e offrire il loro cuore al primo profeta che li avrebbe convinti che l’onda non poteva essere ostacolata. Quel profeta aveva nome David Berg ma si faceva chiamare Moses David. E non era nient’altro che l’ennesimo falso profeta di una generazione troppo ingenua e testardamente convinta che il bene alla fine avrebbe trionfato comunque.
La setta dei Bambini di Dio dietro l’amore libero nasconde in realtà il perverso disegno del suo fondatore. L’amore deve essere totale, dice Berg, anche i bambini devono praticare questo amore. Devono simularne l’atto, congiungersi l’un l’altro per sperimentarne la forza. River, il fratello maggiore del piccolo Leaf, ad appena quattro anni si trova ad essere abusato, a perdere la verginità con una sua amica. D’improvviso la libertà e l’amore diventano un incubo dal quale sembra impossibile uscire. Ad Heart, come a tutte le altre donne, si chiede di adescare nuovi adepti attraverso il sesso. È un inferno in terra. La famiglia, però, ha la forza di dire basta.
Fuggono, fuggono Heart, John, River, Rain e Leaf. Si nascondono su un cargo che dal Venezuela (dove erano approdati come “missionari”) li riporta negli Stati Uniti, a Miami. Ricominciano in Florida provando a illudersi che quell’incubo non c’era mai stato, provando a credere che si possa rinascere dalle proprie ceneri. Rinasciamo dalle nostre ceneri, torniamo alla vita, siamo Fenici. Prendono così in cognome di Phoenix e lasciano alle spalle il sogno di una libertà totale ora che Heart e John non possono più chiudere gli occhi di fronte all’onda infranta. Per tirare avanti i fratellini, a cui nel frattempo si era aggiunta Liberty, ballano per la strada racimolando spiccioli. Sarà quello il loro palco, la prima prova recitativa, il banco di prova per un futuro nel mondo dello spettacolo. La madre, costretta a scendere a patti con la realtà, trova un lavoro come segretaria di un agente di casting della NBC. John inizia a bere dimenticandosi -forse desiderando farlo- di avere dei figli.
E così del piccolo Leaf inizia a prendersi cura il fratello maggiore, River, per lui un vero e proprio padre, un modello, un punto di riferimento.
È River ad approdare per primo alla recitazione grazie ai contatti della madre, prima in tv in Sette spose per sette fratelli, poi nel cinema, fino al ruolo in Stand By Me che lo porta alla ribalta. Leaf lo guarda ammirato. Prova a imitarlo e ottiene alcune parti minori ma non sembra sfondare, vuole mollare. Un giorno, quando Leaf ha circa quindici anni, River torna a casa, lo prende da parte. In mano ha un VHS, lo inserisce nel videoregistratore e mette play. Entrambi guardano estasiati De Niro dominare la scena in Toro scatenato. Terminata la visione River riavvia il film. Lo guardano ancora e ancora. Poi, fissando Leaf dritto negli occhi, con una fermezza che mai gli aveva visto avere, River gli dice di riprendere a recitare. Non glie lo chiede, non glie lo consiglia, glie lo dice. Seccamente, senza possibilità di replica.
Per Leaf è un comando quasi divino. Dopo ruoli importanti in Space Camp e Mamma, ho acchiappato un russo anche per lui si apre la via del successo con Parenthood (Parenti, amici e tanti guai). Sembra davvero che la famiglia Phoenix sia riuscita a rinascere dalle proprie ceneri, tornata di nuovo in vita come una fenice dalla morte. I film per Leaf sono un modo per metabolizzare il suo passato, per riviverlo nella finzione di un set. Così è in Parenthood, dove fa la parte di un figlio abbandonato dal padre. Così sarà in The Master, protagonista introdotto nella setta di un carismatico leader.
Ma il cognome che la famiglia si è autoassegnato sembra una maledizione che li avvolge in un loop di morti e rinascite. Siamo nella notte dei morti e dei santi, Halloween 1993, in un nightclub del West Hollywood. Qui River sembra voler dire basta al suo passato, annegare in un cocktail quell’onda di libertà che si era trasformata in abuso e dolore. Beve come faceva a dieci anni accanto al padre alcolizzato. Ma stavolta qualcosa non va. Ha assunto eroina tagliata con meth, inizia ad avere tremori. Accanto a lui è Leaf, il suo fratellino, il suo migliore amico. Quando le cose volgono al peggio è proprio Leaf a chiamare i soccorsi, sotto shock, con voce tremante e acuta. Arrivano i paramedici, provano a rianimarlo, ma per River non c’è nulla da fare. Muore sotto gli occhi sconvolti di Leaf.
È il momento più duro per tutta la famiglia.
La madre e la sorella si ritirano in una tenuta privata, fuggendo agli occhi assillanti di telecamere e paparazzi. Il giovane Leaf Phoenix, all’epoca diciannovenne, è solo. L’eco perturbante della solitudine. Per due anni vegeta in uno stato di morte apparente. Poi d’improvviso come una fenice dalle sue ceneri decide di tornare alla vita. Nella mente ha il volto del fratello, quegli occhi infuocati che già una volta gli avevano detto di tornare a recitare. In nome suo, per la seconda volta, torna a vivere, torna a essere attore, torna a buttare in scena tutti i suoi drammi e a mostrare le dure cicatrici che ormai gli solcano il volto. Cambia il suo nome tornando a essere Joaquin, ponendo una cesura rispetto al suo passato, all’identità che lo legava naturalmente al fratello River e all’infanzia. Recita accanto a Nicole Kidman, poi in U-Turn di Oliver Stone. Ma è con la parte nel Gladiatore che ottiene un nuovo, pieno successo.
Nella recitazione mette tutto quello che ha, si trasforma di volta in volta, morendo e rinascendo come una fenice in un nuovo corpo, in una nuova parte, in un nuovo se stesso. Nel meraviglioso Walk the Line che gli vale una nomination agli Oscar, Joaquin Phoenix non si cala semplicemente nella parte, diventa totalmente Johnny Cash. Alla fine del film si sente svuotato: “Non avevo più la mia routine giornaliera, uno spazio sicuro in cui sapere cosa avrei detto e mi chiedevo: ‘Chi sei? Cosa sei?’“. Su di sé ha ancora Johnny Cash, la sua vita di eccessi, l’abuso di alcol. Per calarsi nella parte aveva iniziato a bere. Voleva capire il senso, la bellezza distruttiva di affondare nell’ebbrezza. Forse, inconsciamente, voleva capire anche qualcun altro, suo padre ma ancora di più suo fratello River.
“È così semplice bere un drink e sentirsi bene senza fare nient’altro“. È l’inizio di un vortice che lo spinge di nuovo a bruciare e consumarsi nella cenere del suo cognome. Guarda in faccia la morte, per l’ennesima volta, quando i freni della sua auto non rispondono ai comandi e finisce coinvolto in un incidente. Ma di nuovo, risorge, Joaquin Phoenix, uscendo dai rottami. Guarda il cielo limpido, fa per accendersi una sigaretta mentre il fuoco ancora avvolge ciò che lo circonda. Un’ombra gli si para davanti. “Calma, amico“, gli fa quello, togliendogli la sigaretta di bocca ed evitando il peggio. È Werner Herzog, uno dei più grandi registi tedeschi contemporanei. Il caso o forse il dio della Settima Arte ha voluto che Herzog passasse di lì e salvasse il suo protetto, Joaquin Phoenix, la fenice che ancora una volta stava provando a risorgere nelle fiamme.
Questa volta però la resurrezione per Joaquin Phoenix sembra più lunga.
Tra il 2009 e il 2010 semina sconcerto per la scelta di abbandonare la recitazione e dedicarsi al rap. Sembra completamente impazzito come dimostra un’imbarazzante (ma a posteriori esilarante) apparizione al David Letterman Show. Viene progressivamente isolato dal mondo dello spettacolo ma il tutto si rivela poi un clamoroso espediente di arte performativa diretta dal cognato Casey Affleck. Per oltre un anno ha interpretato una parte che diventerà un mockumentario dal titolo I’m still here. Il film sarà un flop ma l’immagine di Joaquin è di nuovo riabilitata. Ancora una volta la fenice è rinata dalle fiamme che lei stessa aveva prodotto.
E il ritorno alla vita è immediato. Subito il successo in The Master e un sodalizio col regista Paul Thomas Anderson che continua anche con un altro capolavoro di nicchia come Vizio di forma, omaggio agli hard boiled. Nel mezzo Her, film in cui ancora una volta l’immersione nella parte è totale. Talmente profonda che la sua vita si modella alla pellicola: sul set conosce Rooney Mara. I due non si sopportano poi molto, almeno così pensa Joaquin. Ma iniziano a scriversi email. La loro storia nasce così, nel virtuale, come la relazione del protagonista di Her con un’intelligenza artificiale. Ma poi si concretizza dal vivo, con un rapporto tenero e profondo dal quale nasce anche un figlio, di nome, naturalmente, River. Perché i Phoenix rinascono sempre dalle proprie ceneri.
Gli ultimi anni di carriera sono caratterizzati dal costante rinnovarsi della sua fama, dal successo planetario di Joker. Per entrare nella parte mette a dura prova la sua tenuta psicologica, attinge a tutti i suoi traumi d’infanzia, ai dolori reali che catapulta e sublima in un sociopatico, carismatico come il leader di una setta. Per la celebre danza rievoca i balli per strada della sua infanzia ma soprattutto la mimica di Buster Keaton, icona del cinema muto. L’interpretazione gli vale, tra gli altri, l’Oscar e il Golden Globe per miglior attore protagonista. Alla premiazione, commosso, racconta la storia di quella volta che il fratello River gli fece vedere e rivedere Toro scatenato, spingendolo a non mollare con la recitazione. “Sono in debito con lui perché recitare mi ha dato una vita incredibile“. A ben vedere gli ha dato più di una vita: un intero ciclo di vite, che Joaquin Phoenix ha animato risorgendo, ruolo dopo ruolo, dalle sue ceneri come una fenice che non smette mai di tornare al mondo. Di tornare, anche dopo tanto dolore, a vivere.