Tutto cominciò con Skyler White: il personaggio più ingiustamente odiato di Breaking Bad eppure insostituibile e necessario. La figura della killjoy, espressione a dir poco evocativa e immaginifica, è presente fin dall’alba dei tempi nella narrazione. È una parola che, manco a dirlo, si associa immediatamente a una figura femminile, nonostante non abbia alcuna connotazione di genere.
Sono le donne che “uccidono la gioia”, che mettono i bastoni fra le ruote al protagonista, che rompono le scatole. È sempre stato così e sarà sempre così. Perché il ruolo delle guastafeste è proprio questo: sacrificare la loro reputazione presso i fan, venire odiate, sentimento che spesso si estende anche alle loro interpreti, tutto pur di mandare avanti la storia. Perché senza una rompiscatole non esisterebbe una storia.
In principio, quindi, fu Skyler White: non perché prima di lei non ce ne fossero state altre, di guastafeste nelle serie tv, ma perché la risonanza in negativo che ha avuto questo personaggio ha pochi eguali nella storia del piccolo schermo. Skyler White ha ridisegnato i connotati della killjoy, portando sullo schermo una donna forte eppure terribilmente fragile, un’antagonista e allo stesso tempo la spalla più sincera del protagonista che si potesse immaginare. Una madre e una matriarca insieme succube e spietata come una leonessa, quando si tratta di difendere i suoi figli. Una donna che ha messo in pratica per davvero la bugia che Walter White si ripete per cinque stagioni, “I did it for my family”, quando, in realtà, “I did it for me”.
Skyler White, Breaking Bad (640×360)
Una costante nella caratterizzazione delle killjoy è l’inserimento nel personaggio di caratteristiche che, quando a possederle è un personaggio maschile, vengono elogiate e considerate un pregio. La scaltrezza, l’abilità di “vendersi” e di scendere a compromessi (in apparenza), la spietatezza, la pianificazione e l’esecuzione di un piano fin nei minimi dettagli sono dettagli che, in un personaggio maschile scritto per essere un villain, vengono apprezzate dai fan. Non sempre è così quando a essere scaltra, pianificatrice e opportunista è una donna: spesso la “colpa” di questa ricezione negativa dei personaggi femminili è da imputare agli sceneggiatori, ma più verosimilmente la causa di ciò è da imputare a una sensibilità del pubblico ancora legata a stereotipi di genere che esigono che un personaggio femminile sia materno, remissivo ed empatico.
In Breaking Bad, la caratterizzazione delle (poche) donne presenti è a dir poco impietosa: sia Skyler che Marie, i personaggi femminili principali, sono due meravigliosi esempi di killjoy con tutti i crismi. Marie è sicuramente il personaggio con il quale è più difficile provare empatia, dato che, diversamente da Skyler, agisce in preda alle sue nevrosi e non certo in un tentativo disperato di tenere unita la famiglia. Marie è capricciosa, completamente schiava delle sue fissazioni e profondamente annoiata, sentimento che la porta a riempire la sua esistenza di piaceri frivoli come rubacchiare nei negozi e organizzare pranzi e cene fuori.
Skyler, con tutti i difetti oggettivi del personaggio, è una donna che cerca di tenere unita la famiglia pur avendo le mani legate. Il suo destino è di essere odiata perché il sentimento di odio è complementare a quello di ammirazione per Walt, che si macchia di crimini oggettivamente raccapriccianti ma che non viene certo colpevolizzato dai fan come invece sua moglie, che ha l’unica colpa oggettiva di avere “fucked Ted“. Possiamo considerare Skyler come un primo “esperimento” di scrittura di un personaggio femminile collocabile nello spettro delle killjoy per Peter Gould e Vince Gilligan. Un esperimento che, con le dovute differenze, ha portato alla creazione, in seguito, di Kim Wexler in Better Call Saul.
Kim Wexler, Better Call Saul (640×360)
Kim è un personaggio che, in Better Call Saul, fa esattamente ciò che Skyler fa in Breaking Bad: è la voce della coscienza di Jimmy, cerca di portarlo sulla retta via, salvo farsi coinvolgere a tal punto nella sua parabola discendente da diventare sua complice. Eppure il destino del personaggio di Kim è di essere amato, mentre Skyler White è considerata da tutti una strega, una guastafeste, l’emblema delle killjoy. Forse il motivo è che Kim è una donna dall’intelligenza che si esprime in modi più raffinati rispetto a Skyler, più impetuosa e impulsiva.
O, più probabilmente, perché Gould e Gilligan hanno capito che quando concedi a un personaggio femminile lo stesso spazio che dai al protagonista maschile, riesci a esprimere tutto il suo potenziale, portando il pubblico a entrare nella sua mente e capirlo. Capire è la chiave per poter amare. Skyler è incomprensibile agli occhi dello spettatore, obnubilato dall’onnipresenza di Walt, e infatti la odiamo. Kim non sgomita per uscire dal cono d’ombra di Jimmy, è complementare e sullo stesso piano rispetto a lui, e infatti la amiamo.
Indubbiamente, come abbiamo approfondito in questo articolo, il personaggio di Skyler White è stato modellato su un’altra killjoy fondamentale nella storia delle serie televisive: Carmela Soprano. Entrambe donne forti, “angeli del focolare” atipici, prese singolarmente sono donne oneste e generose: messe a fianco ai loro mariti che, in circostanze del tutto diverse, sono sempre stati o diventano dei criminali, diventano tutt’altro per sopravvivere.
Carmela Soprano, I Soprano (640×360)
In Carmela, da brava donna italo-americana, l’elemento della religione è la chiave per delineare il conflitto interiore del personaggio, che si trova a dover mediare tra l’impulso all’onestà e la necessità di trasformarsi in una complice del marito. Diversamente da Tony, che tradisce sistematicamente la moglie, Walt non è un marito infedele (non nei confronti del suo vincolo matrimoniale, perlomeno): questa è un’altra differenza fondamentale tra i personaggi di Carmela e Skyler.
In Breaking Bad è Skyler a tradire Walt e a rivendicarlo apertamente, per mostrare al marito quanto sia esasperata dalla prigione di bugie e sotterfugi in cui lui l’ha costretta a vivere. Per Walt, che è già un narcotrafficante con innumerevoli vite sulla coscienza, il tradimento della moglie è un crimine ingiustificabile, mentre i suoi omicidi sono perfettamente spiegabili e giustificabili. Skyler, un personaggio figlio di un’altra epoca e di un altro tessuto sociale, concepisce il tradimento come un inizio di via di fuga da una vita diventata insostenibile. Carmela, figlia di un’epoca televisiva diversa e soprattutto impregnata di tutt’altra cultura, sopporta in silenzio, al massimo si concede qualche scappatella sulla quale non riversa alcuna aspettativa.
Carmela Soprano, moglie del boss, casalinga e soprattutto vera capostipite del personaggio della killjoy. Nonostante le sue scenate di gelosia, i momenti in cui sembra che il matrimonio con Tony stia per finire, nonostante un’infelicità protratta nel tempo che trasforma profondamente il personaggio, Carmela non pensa mai davvero di scappare da quella vita. Forse perché non ha mai avuto un’alternativa, perché non conosce più il mondo dell’onestà, forse perché nella sua educazione non esiste il concetto di rivendicazione della propria individualità ma solo l’imperativo morale categorico di prendersi cura della casa, della famiglia, del marito anche se traditore.
Carmela, a differenza di Skyler, ha scelto la prigione dorata in cui si ritrova e impara ad apprezzare i vantaggi che comporta essere la donna del boss. La sua passione per gli orpelli superficiali e materiali che la sua condizione le porta in dote dimostrano quanto la donna si sia adattata, abbia arredato la propria gabbia in modo da trovarcisi bene. Se Skyler è a tutti gli effetti una socia (controvoglia) del marito, che gestisce la facciata presentabile del suo impero, Carmela è il vero “angelo del focolare”, per quanto nevrotica, superficiale e sola possa essere.
Carmela Soprano è giocoforza anche complice del marito, ma il suo ruolo è sempre ancillare, di supporto, del tutto diverso da quello che assumerà Skyler nel corso di Breaking Bad; e a sua volta Skyler impallidirebbe di fronte alle vette di potere che si ritaglia un’altra killjoy nel corso della sua storia, Wendy Byrde di Ozark.
Wendy Byrde, Ozark (640×315)
Wendy Byrde non è né ancella né complice del marito: è a tutti gli effetti un vero boss, almeno dalla seconda stagione, in cui si prende il ruolo che nel corso della prima era stato del marito, Marty. Wendy, un po’ come Walter White, una volta assaggiato il gusto del potere, ne diventa ghiotta: ritrovarsi a gestire una situazione potenzialmente esplosiva, tra la vita e la morte, risveglia qualcosa di addormentato in lei che comincia a scalciare e non smette più.
Wendy fa ciò che deve per la sua famiglia, ma ciò non significa che non debba anche piacerle: è questa la differenza con le altre due killjoy, Carmela e Skyler, che per quanto si sforzino di farsi piacere quella nuova vita, cercano sempre di fuggire. Wendy è una madre, una moglie e una professionista: poco importa se l’ambito in cui dimostra tutte le sue potenzialità sia quello della criminalità.
L’adrenalina che le dà fare ciò che deve per sopravvivere non è barattabile con la sua vita precedente, per quanto promettente fosse: proprio per questo Wendy è più simile a Walter White, un falso buono che trova nel male la sua realizzazione, che a Skyler, per quanto siano entrambe madri che fanno ciò che devono per la famiglia. Un’altra differenza è che in Ozark nessuno è innocente: i figli di Marty e Wendy sono perfettamente a conoscenza della situazione in cui si trova la famiglia e fanno la loro parte, come se costruire un impero criminale fosse una normale attività di famiglia a cui nessun membro può sottrarsi.
Wendy sceglie di rendere consapevoli i suoi figli, di macchiare la loro innocenza e di trasformarli nei suoi complici: una scelta assolutamente rivoluzionaria per un personaggio di madre. L’istinto di protezione verso i figli non le impedisce di servirsi di loro, così come si serve di tutti intorno a lei, eliminando ciò che rappresenta una minaccia: poco importa se è sangue del suo sangue. La scelta di uccidere il fratello, per quanto pesi sulla sua coscienza, è necessaria e inevitabile: così è come ragiona un vero boss.
Gemma Teller, Sons of Anarchy (640×400)
Neanche Gemma Teller, in Sons of Anarchy, è l’emblema della madre modello: difficile immaginare una figura materna più soffocante, incombente nella vita del figlio, minacciosa e violenta. Nemmeno la tragedia più terribile per una donna, lo stupro, riesce a piegarla: Gemma, al contrario, risorge più arrabbiata e cattiva che mai. Strumentalizza persino la violenza subita per ottenere più potere all’interno dei SAMCRO, portando i due rivali nel gruppo, Clay e Jax, ad allearsi: nessuno dei due realizzerà di essere stato manipolato da questa donna geniale e crudele.
Proviamo empatia e insieme orrore per lei, che è stata capace di macchiarsi di crimini orrendi (il peggiore, l’assassinio a sangue freddo di Tara, l’unico grande amore di suo figlio Jax) mantenendo sempre un’imperturbabile espressione di puro gelo.
La gelosia è il motore che la spinge a uccidere l’unica vera rivale nel cuore di Jax, Tara: non è solo la volontà di preservare l’equilibrio dei SAMCRO, di proteggere i suoi nipoti, a spingerla a colpire la donna con una tale spietatezza da lasciare agghiacciati. Gemma non sopporta di essere seconda in niente, tantomeno nel cuore dei suoi uomini: e nonostante li ami, complotta contro di loro, li umilia, li comanda a bacchetta e gli toglie ciò che amano nel peggiore dei modi. Come si fa a non odiarla, e allo stesso tempo come si fa a non amare un personaggio così mastodontico nella sua crudeltà, nel suo capriccio, nel veleno dal quale si abbevera?
Gemma impersona letteralmente il concetto di “uccidere la gioia”: toglie tutto a chiunque abbia la sfortuna di incrociare i suoi passi. Come le altre donne che abbiamo analizzato, è scomoda, opportunista, concepita per ostacolare il protagonista e per questo destinata a suscitare odio.
Le killjoy scardinano gli stereotipi di genere e per questo risultano antipatiche: non sono dolci e materne, sono rompiscatole o autentiche manifestazioni del male puro che collocano la femminilità fuori dallo spettro delle sue caratteristiche più rassicuranti e per questo inquietano e spiazzano lo spettatore che si aspetta una rappresentazione binaria dei personaggi maschili e femminili. Proprio le caratteristiche che rendono queste donne killjoy le fanno apprezzare a quella fetta di pubblico che non si accontenta di dividere i personaggi di una serie tv in “buoni” e “cattivi”.
Sarà il fascino del male? L’attrattiva che da sempre esercitano su di noi i personaggi complessi, contraddittori, detestabili eppure proprio per questo irresistibili? O forse il fatto che la killjoy, come tutti i personaggi concepiti per essere “guastafeste”, contiene in sé il concetto più puro di azione cinematografica: senza un ostacolo, qualcuno che si oppone, che rompe le scatole, non esisterebbe una storia degna di essere raccontata.
Giulia Vanda Zennaro