ATTENZIONE: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler su Thirteen, I Cesaroni, La casa de papel, Prison Break, Due uomini e mezzo, Élite , Un medico in famiglia
Quando una serie tv arriva ad appassionare gli spettatori in maniera viscerale, accade che raccontare una storia relativamente breve dei protagonisti non basta. Vengono amati a tal punto da prenderli quasi come persone alla pari, la cui vita prosegue esattamente come quella di coloro che li guardano. Una giornata lavorativa o scolastica termina e quando si torna a casa quello che si vuole sapere è a che punto si trovano le vicende di quei personaggi, abitanti delle loro serie preferite.
Ma le serie tv come La casa de papel o Un medico in famiglia sono storie immagazzinate in una scatola di vetro e come tali devono avere un inizio e necessariamente anche una fine. Alcune volte questa arriva troppo presto rattristando gli appassionati, inducendoli a voler desiderare di tornare indietro per poterle rivedere ancora una volta come se fosse la prima. Quando questo succede allora vuol dire che quella storia è stata raccontata in maniera corretta, senza lasciare niente di sospeso anzi mantenendo uno splendido ricordo di ciò che è stato visto.
Sfortunatamente però non tutte le serie tv hanno voluto accettare la loro fine. La casa de papel, Prison Break, Élite e tante altre sono sfuggite all’inevitabile epilogo, appiccicando alle loro storie artefatti narrativi talmente inverosimili da risultare grotteschi e ripetitivi. Finendo così per contaminare quel disegno originario che aveva catturato l’attenzione e l’aveva mantenuta per molto tempo. In questo caso la fine non è qualcosa di commovente, che si spera non arrivi mai ma si trasforma in qualcosa da desiderare ardentemente per porre termine a quella visione diventata monotona e ridondante.
Ecco perchè oggi analizzeremo 7 titoli di serie tv che sarebbe stato meglio lasciar finire a loro tempo.
1) Due uomini e mezzo
Serie tv il cui sinonimo è uno e uno solamente: Charlie Sheen. Poiché quando si parla di Due uomini e mezzo si deve parlare necessariamente anche dell’interprete del personaggio principale, l’attore protagonista attorno al quale la storia di un donnaiolo scapolo, costretto a vivere con il fratello e il nipote è stata costruita. Per le prime 8 stagioni situazioni esilaranti farcite da una comicità piacevole in cui i tre personaggi sono inseriti, rendono questa serie tv una di quelle da tenere presente quando si vuole vedere qualcosa di divertente. L’essere così lontano dal rappresentare un modello di vita di Charlie Harper (Sheen) è talmente verosimile da rendere credibili anche i momenti più assurdi. Il tutto reso possibile grazie ad un personaggio cucito perfettamente sull’attore che lo interpreta.
Se ne deduce che non possa esistere Due uomini e mezzo senza Charlie Sheen. Invece, nelle ultime tre stagioni, è stato proprio il suo personaggio ad essere eliminato.
Ma colpo di scena. La serie ha continuato ad esistere con Ashton Kutcher a prendere il suo posto di sciupafemmine incallito: per carità, per quanto possa essere carino e coccoloso, non regge il confronto con il suo predecessore.
A causa di alcuni diverbi con il produttore Charlie Sheen abbandona la serie, lasciando dietro di sé non solo la sua eliminazione platonica ma anche fisica (visto che il personaggio di Charlie viene davvero fatto morire). Quello che poteva essere l’epilogo perfetto con l’ottava stagione, conclusa con la partenza di Charlie e Rose per Parigi, un epilogo in cui forse si era avuta la maturazione e la trasformazione nell’uomo modello monogamo che tanto si desiderava, lascia uno strascico di cui si poteva benissimo fare a meno.
Infatti la nona si apre con la morte di Charlie, di cui non si ha una testimonianza diretta ma descritta solamente dalle parole di Rose. Quest’ultima sembra averlo scoperto in atteggiamenti amorosi con un’altra donna e Harper rincorrendola per farsi perdonare, finisce sotto la metropolitana. In questo modo l’immagine che viene raccontata anche dopo la sua morte torna ad essere quella del libertino scapestrato che è sempre stato. Ma come non c’è Breaking Bad senza Walter White non può esserci Due uomini e mezzo senza Charlie Sheen. Così gli sceneggiatori impauriti dal calo di consensi hanno dato vita alla lunga odissea fatta di subentri di personaggi stellari, vedi il cameo di Miley Cyrus o addirittura la sostituzione di quel “mezzo” (il nipote Jake) con la figlia mai conosciuta di Charlie, il cui ricordo del padre risale a quando aveva l’età di 4 anni. A testimoniare ancora una volta quanto il protagonista della serie sia stato inaffidabile in vita pur essendo ormai morto e sepolto.
Si arriva così a snaturare una serie nata per essere altro e che è riuscita ad esserlo fino a quando il personaggio motore della storia era presente. Poiché, per quanto il finale da metaverso con la rottura della quarta parete e l’interazione con il pubblico sia stato qualcosa di inaspettato, la trama originale non ha giovato della sua alterazione. Ciò che si ricorda sono solo le vicende con Charlie Harper come protagonista, tutto ciò venuto dopo non esiste.
2) I Cesaroni
Remake italiano della serie spagnola Los Erranos, I Cesaroni sono andati troppo ma troppo oltre. 6 stagioni per un totale di 142 episodi di cui bene o male se ne ricordano la metà, almeno quelli in cui l’albero dei personaggi aveva ancora una qualche coerenza. Ma con il passare delle stagioni ciò che traspare da I Cesaroni è solo la volontà di andare avanti a tutti i costi, dando così vita a nuovi espedienti narrativi amorosi e tanta tanta confusione.
Il punto di forza della comedy italiana era la normalità. Raccontata in un periodo storico in cui di famiglie allargate se ne vedevano poche, la semplicità di una famiglia numerosa, i cui membri si sono ritrovati a vivere insieme in seguito ad un matrimonio portava qualsiasi spettatore a riconoscersi in essa. Per le prime tre stagioni tutto funziona alla grande, la storia d’amore tormentata tra Marco ed Eva riesce ancora ad entusiasmare gli spettatori, così come le classiche avventure rocambolesche dei tre amici per la pelle Giulio, Ezio e Cesare, i cui guai vengono risolti sempre grazie al cosiddetto “metodo Cesaroni”. Ma nel momento in cui Elena Sofia Ricci alias Lucia abbandona il suo ruolo le cose non precipitano solo per la famiglia Cesaroni ma anche per la serie.
Quella solare semplicità vissuta tra le mura della Garbatella e le rive del Tevere in una rumorosa ma irresistibile Roma, lasciano spazio alla tristezza ma soprattutto al disordine degli episodi. Giulio mantiene il suo fascino da latin lover di quando era ragazzo restandone però imprigionato, tanto che alla fine non si capisce più chi è la donna al suo fianco. Olga, Emma, Sofia una carrellata di nomi e figure femminili si alternano per prendere il posto di Lucia, personaggio mai chiuso definitivamente poiché sarà artefice di qualche apparizione anche dopo l’abbandono della Ricci. Ma non solo, dopo che gli ascolti hanno iniziato a calare con l’uscita di scena della coppia amata da tutti (quella formata da Marco ed Eva) si tenta di replicare la loro storia d’amore con gli altri due fratelli della famiglia romana: Rudi e Alice. Tentativo fallito poiché la serie non terminerà con l’unione tra i due. Con lo scorrere degli episodi oltre a Lucia si vedranno scomparire anche Eva e Walter, a cui seguiranno Marco ed Ezio, quattro delle figure principali della rosa dei personaggi iniziale. Così quella che era una storia semplice basata sulla naturalezza si ritrova ad essere un collage forzato di personaggi mai davvero entrati nella memoria dello spettatore, il quale dopo aver concluso la visione dell’intera serie arriva addirittura a non ricordarne mai davvero la fine.
3) Élite
Un’altra serie in cui lo schema dei personaggi è stato completamente stravolto e continuerà ad esserlo è Élite.
Non siete gli unici a non ricordare i volti di Paulo, Lu, Carla, Nadia, Ander perché nelle ultime due stagioni di Élite di queste figure non ne appare neanche una. Tutti sono stati sostituiti da personaggi sostituiti a loro volta e così sarà anche per quanto riguarda la settima stagione, visto che Élite sembra proprio di non averne ancora abbastanza di intrecciare trame adolescenziali farcite da tinte noir. Il suo punto forte però coincide con l’elemento che man mano le sta facendo perdere l’originalità ovvero la ripetitività dello stesso schema in ogni singola stagione. Anche se i personaggi cambiano (in fondo nemmeno tanto) il disegno narrativo è all’incirca lo stesso, solo con l’aggiunta di qualche elemento sociale per renderla più contemporanea. Vedi il personaggio di Nico o la relazione tossica tra Sara e Raul, il cui amore è completamente avvelenato dai social da cui dipendono.
In tutte le stagioni di Élite vi è sempre la disparità sociale tra ricco e povero, una relazione omosessuale, un omicidio/incidente e una relazione tossica, il tutto abbellito con un pizzico di polverina bianca e qualche goccia di alcol. Questa la falange sulla quale la serie si è sviluppata per sei intere stagioni ma facendo fede alla matematica: anche invertendo l’ordine degli addendi il risultato non cambia ed Élite non fa eccezione. Poiché sostituire continuamente i protagonisti porta inevitabilmente alla diminuzione della voglia di voler proseguire la sua visione. Questo perché quando una serie comincia vi è sempre un disegno a condurre il suo sviluppo. Poi però accade che il successo ottenuto porta a voler raccontare la storia per un tempo troppo lungo. Questo non solo ha come conseguenza la perdita del disegno iniziale ma anche e soprattutto della credibilità dei personaggi. Una storia ha un inizio ed una fine e nel momento in cui la fine è stata raccontata, complici anche i mini episodi che hanno riguardato alcuni personaggi lasciati in sospeso (quelli di Carla e Cayetana ad esempio) non c’è nient’altro da dire.
Inutile continuare a camminare su un sentiero già percorso perché non ci sarà davvero più niente da scoprire e lo spettatore si imbatterà nell’emozione peggiore che una serie tv può suscitare: la noia.
4) La casa de papel
Un altro titolo made in Spagna che se fosse finito prima sarebbe stato meglio è La casa de papel.
Spuntata come una delle novità piacevoli degli ultimi anni La casa de papel si è fatta artefice di qualcosa di inaspettato.
La storia di una banda di rapinatori con i nomi ispirati alle città più belle del pianeta, guidati da un leader dal nome enigmatico Il professore, sarebbe potuta essere davvero una bella storia. Se solo si fosse fermata in tempo.
Sì perché La casa de papel si fa specchio di quella parte della società dimenticata e lasciata ai margini, la cui occasione di riscatto sta nel rompere gli schemi e rapinare l’indimenticabile Zecca di Stato spagnola. Un moderno Robin Hood in cui i poveri sono rappresentati dagli stessi membri della banda. I reietti rifiutati dalla comunità i cui nomi provengono da ogni parte del globo, diventano il simbolo attraverso il quale rappresentare chiunque se ne senta escluso.
Fin qui tutto bene se non fosse che quella volontà di rompere gli schemi attraverso elementi anticonformisti, come la maschera di Dalì e il canto di battaglia Bella Ciao, non si fosse trasformata in avidità mista a megalomania.
Man mano che La casa de papel va avanti, tutte quelle caratteristiche con cui poter potenzialmente entrare in empatia mostrate nelle prime due stagioni crollano. Emergono (forse) i sentimenti reali per cui la banda mette in atto piani su piani con i quali organizzare rapine vale a dire l’egoismo e l’egocentrismo. Tutti quegli elementi anti-omologazione in realtà ne La casa de papel si trasformano nell’esatto contrario, catturando i personaggi nella trappola della superficialità da cui forse si sarebbero salvati solo se si fossero fermati in tempo.
5) Un medico in famiglia
Come per la maggior parte dei titoli presenti nella lista, quando viene diviso il cast iniziale con cui una serie tv ha avuto successo ha inizio il declino. Fortunatamente per la sit-com della domenica sera Un medico in famiglia la discesa non è stata così catastrofica ma la differenza tra le ultime stagioni e le prime si nota eccome.
Un medico in famiglia è una di quelle poche storie il cui sviluppo procede di pari passo con l’andamento reale del tempo. Non solo perché si vedono i personaggi crescere anagraficamente ma anche per il modo in cui questi personaggi e le loro vicende personali vengono raccontate.
Iniziamo con la scoperta, l’elemento caratterizzante degli anni Novanta. Il nuovo millennio si avvicina mentre gli anni fatti di terrore e buio causati da un periodo storico, segnato da guerre e anche da evasioni mentali psichedeliche sono ormai alle spalle. In questo spazio a fare da ponte tra le due epoche vi è la famiglia Martini, una famiglia normale composta da un padre medico, un nonno comunista in pensione, una figlia adolescente alle prese con i primi problemi dettati dalla pubertà, un figlio monello e una più piccolina. Una famiglia in cui non può mancare il dramma doloroso come causa originaria della storia ovvero la morte della madre.
Con queste premesse le prime due stagioni raccontano le vicende della famiglia Martini con uno spirito frizzante che guarda al futuro senza però dimenticare il passato e questo lo si nota soprattutto grazie alla malinconia di alcuni episodi.
La serie è un successo tanto da indurre i produttori a voler continuare la messa in onda. E così eccoci arrivati agli anni duemila. Quelli che erano i piccoli figli del dottor Martini ormai sono cresciuti, in famiglia non c’è più Lele bensì il dottor Guido Zanin, l’immancabile casanova il cui cuore verrà conquistato da Maria. Arrivano così le novità come i primi cellulari, le prime forme di convivenza e le borse di studio sportive per dare la possibilità agli studenti di fare un’esperienza all’estero. Un Medico in Famiglia continua a funzionare ma ancora per poco poiché con la quinta stagione ha inizio la discesa.
Si tenterà con il ritorno di Giulio Scarpati e di Ugo Dighero nella sesta stagione di tornare alle origini, ricostruendo quel castello iniziale che tanto era piaciuto ai telespettatori e per un’intera stagione l’intento avrà buoni risultati, se solo si fossero fermati a quella. Le ultime 4 di Un medico in famiglia vedono l’ingresso di nuovi personaggi oltre alla crescita dei pochi rimasti. Elena e Bobo avranno a che fare con i primi dolori romantici, Annuccia ormai è diventata Anna e prenderà il posto di Maria e Guido con il suo folle amore per Emiliano. Ma non solo, vi sarà l’arrivo del nipote vissuto in America ovvero Lorenzo, la cui vita s’intreccerà con quella della sorella di Marco, sposo di Maria dopo la morte di Guido. Troppi nomi per una serie che non ne sentiva il bisogno, almeno se si fa riferimento ai fan originali.
Come già detto in precedenza, quando si prende a cuore una storia quello che ci si aspetta è sapere come quella storia andrà a finire, anche se la fine equivale ad un addio. E i bambini cresciuti con Un medico in famiglia ormai adulti un finale degno forse non lo hanno mai avuto. Poiché di quelle persone apparse sullo schermo nell’ultima stagione ne conoscono veramente poche.
6) Prison Break
Quando una serie è qualitativamente perfetta e si sceglie di farne una nuova stagione a distanza di anni, l’errore che essa non possa esserne all’altezza è dietro l’angolo. Ed è ciò che è accaduto con il revival di Prison Break. Ce n’era davvero bisogno? Probabilmente no ma quando un prodotto può ancora portare soldi tanto vale spremerlo ancora un pochino.
Alla fine della quarta stagione Michael muore in un’esplosione dopo aver salutato con un addio da brividi e lacrime sua moglie e suo fratello. O almeno così si pensava poiché sette anni dopo si viene a conoscenza del fatto che Michael sia ancora vivo, imprigionato in un carcere nello Yemen. Come ha fatto a sopravvivere all’esplosione? Non ne abbiamo idea. Come ha fatto a sopravvivere ad un cancro terminale al cervello? Idem con patate. Dal non sapere rispondere a queste due domande viene fuori il grande problema di Prison Break.
Una serie di cui si poteva avere la fine subito dopo le prime due stagioni nonostante quelle successive mantengano comunque un livello eccellente. Una serie che pur non essendo incappata nell’errore di cambiare i protagonisti (poiché nel revival il cast è al completo) scivola sull’inverosimiglianza e la poca credibilità della storia. L’essere vivo di Michael è surreale e il suo essere di nuovo prigioniero lo ingabbia nel più banale dei cliché ovvero la sua perdita di identità, senza la quale non riconoscerà neanche la persona a lui più cara: suo fratello Lincoln. Avrà così inizio un Prison Break al contrario con Lincoln che tenterà di liberare Michael ma quello che può essere considerato un lieto fine è soltanto ciò che in realtà rende inumano il suo protagonista. Dopo aver visto per 4 lunghe stagioni due fratelli combattere l’uno per l’altro mostrando un legame indissolubile e difficile da recidere, vedere la vulnerabilità di quel legame con la morte di Michael è ciò di cui lo spettatore aveva bisogno per percepirlo come reale. Ma con l’ultima stagione quello stesso legame si è mostrato indistruttibile portandolo così a pensare che di veritiero ci sia veramente ben poco.
7) Thirteen
Può una serie il cui significato intrinseco risiede nel titolo stesso protrarsi per un tempo considerevolmente lungo?
Thirteen lo ha fatto e lo ha fatto nel modo peggiore, rendendo superficiale anche quei temi in cui la superficialità è il nemico più grande in cui si possa incappare.
Approdata su Netflix come la serie adolescenziale che tutti dovevano vedere, sia gli adolescenti per trovare in essa uno spiraglio da cui poter chiedere aiuto sia gli adulti per comprendere al meglio cosa potesse celarsi dietro i silenzi dei loro figli. Tredici racconta la storia di Hannah Baker, liceale suicidata a causa del bullismo in cui è caduta a causa di un concatenarsi di situazioni da cui non è riuscita a fuggire. La ragazza racconta attraverso una serie di cassette registrate (tredici per l’appunto) i motivi che l’hanno condotta a compiere quel gesto di non ritorno. Questo nella prima stagione.
E allora perché si è voluti andare avanti necessariamente quando ormai non c’era più niente da raccontare?
Le stagioni successive di Thirteen sono state in grado di rovesciare la situazione e mostrare gli adolescenti non più come degli esseri fragili da ascoltare, da curare e da aiutare ma come i classici ragazzi incompresi, caduti nel tunnel dell’oblio da cui difficilmente riescono ad uscire. Un pozzo in cui (sembra)cadono solamente a causa loro.
Situazioni al limite dell’inverosimile, costruite solamente per dare alla serie un seguito di cui si poteva anzi si doveva fare a meno proprio per non minimizzare l’importanza della prima. La magra consolazione della morte di Bryce Walker non basta a riscattare una serie la cui fine sembra essere quella di una storia da un inizio diverso da quello visto.
L’evidenza con cui l’instabilità degli adolescenti viene mostrata dalla seconda stagione in poi è proprio ciò che rende la loro fragilità fastidiosa quasi snervante, tanto da voler spegnere subito la televisione per aver visto troppo nel senso letterale del termine. Rimpiangendo così l’eterea delicatezza con cui la storia di Hannah Baker è stata raccontata.