Quando il 23 maggio 2010 l’occhio di Jack si chiudeva per l’ultima volta ricomponendo Lost in un senso unitario non mancarono le lacrime. Furono lacrime di commozione e di nostalgia. Sapevamo che con quell’occhio si chiudeva una storia lunga sei anni capace di tenerci incollati allo schermo settimana dopo settimana. Ma Lost è stato molto di più di questo. È stato parte delle nostre vite nella quotidianità.
Quel 22 marzo 2005 ci apprestammo alla visione del primo episodio con la curiosità di chi non sapeva cosa aspettarsi. Un’isola, un incidente aereo, dei sopravvissuti. Il trailer aveva già lasciato intendere che qualcosa di nuovo avrebbe caratterizzato la Serie, che il mistero sarebbe stato parte integrante di Lost. Furono diciotto i milioni di telespettatori nei soli Stati Uniti e un rendimento di ascolti che si mantenne inalterato per tutta la stagione. Dopo i primi episodi il mistero celato dietro l’isola ci aveva già conquistato ma c’era qualcos’altro. Qualcosa di più. Quei personaggi sulla scena, quei Losties, ci apparivano giorno dopo giorno sempre più affascinanti e, soprattutto, reali.
I focus di approfondimento che fin dalla prima stagione vennero riservati ai protagonisti ci permettevano di approfondire il loro passato, sfumatura dopo sfumatura. Scoprimmo così che ognuno di loro portava un peso, portava con sé la drammatica consapevolezza di un passato difficile. Questo interesse per gli ultimi, per i reietti avrebbe accompagnato tutto lo Show. Nelle debolezze dei Losties scoprivamo man mano le nostre difficoltà, le nostre piccole quotidiane tragedie.
Anche il male in Lost veniva ad assumere forma nuova, complessa e sfaccettata.
Il bianco e il nero che caratterizzano la sigla e che tornano a più riprese scenograficamente negli episodi diventavano sempre più rarefatti. Il male che verrà rivelato solo nella stagione conclusiva nella sua pienezza veniva a presentarsi come qualcosa di estremamente familiare e non privo di una sua logica stringente. “Arrivano, combattono, distruggono e corrompono. È così che finisce sempre”. In questa visione c’era il realismo nichilista di chi ha smesso di credere. Di chi, di fronte all’uomo e alle sue insuperabili brutalità, non ha più fede. C’è la rabbia di chi ha vissuto, ha sperato e ha visto infrangere la sua illusione. Il mondo gira, e tutto è sempre uguale a se stesso in un eterno, insignificante ripetersi.
Non è il male che ci aspetteremmo, la brutalità insensata di chi uccide mosso da un qualche tarlo interiore. No, è il male di vivere: la sfiducia di fronte allo stato di fatto. I Losties sono “persi”, “imperfetti […], alla ricerca di qualcosa che là fuori non riuscivate a trovare” (Jacob, 6×16). Lost ci ha messo di fronte a questa visione ma ci ha anche dato l’alternativa all’eterno ritorno: “Finisce una volta sola e qualunque cosa succeda prima è solo progresso”, afferma il deus ex machina Jacob. La visione lineare, progressiva, cristiana e occidentale che vede il mondo in un continuo procedere, in un divenire in cui nulla è mai certo e l’uomo può redimersi.
I Losties si trovano continuamente di fronte a delle scelte e noi con loro.
Ogni loro scelta è una scelta che compiamo anche noi, con cui settimana dopo settimana ci siamo confrontati. Lost ci ha fatto scoprire il senso del racconto che “ricostruisce una forma, ritesse i fili, ristabilisce i collegamenti spezzati. Il racconto è zattera in mezzo al naufragio, arca di Noè dopo il diluvio, tenerezza al posto dell’orrore, voce anziché silenzio, giustizia contro la violenza, ordine nel caos, argine all’oblio. La vita continua nel tempo del racconto” (Benedetta Tobagi).
È una vita simulata quella che viviamo in Lost, eppure tenacemente reale. Perché staccandoci dallo schermo portiamo con noi le scelte dei Losties. Le loro esperienze diventano le nostre. Ci scopriamo a condividere gioie e dolori con i nostri amici, momenti di rabbia e scoramento, teorie assurde e voli pindarici. Lost diventa così parte integrante di intere serate, argomento di dibattito e confronto. Tendiamo l’orecchio e sentiamo parlare contestualmente di kantiano libero arbitrio e nichilistico, nietzschano eterno ritorno. Sentiamo parlare di amore e perdono. Di letteratura classica e fisica quantistica.
Lost totalizza la nostra esperienza e ci pone di fronte ai grandi temi esistenziali come alle scelte di ogni giorno.
Coinvolge a trecentosessanta gradi come nessuna Serie è mai stata in grado di fare. Il tutto accompagnato dalle splendide musiche di Michael Giacchino che diventano parte integrante della Serie, soprattutto nel tema di ‘Life & Death’ che segna il finale. Non si può non rimanere commossi dalla profondità di quelle note. Le dita sfiorano appena i tasti del pianoforte. Alla solitudine del piano segue la partecipata compagnia dei violoncelli. Si vive insieme, si muore insieme. Anche la musica trasferisce questo straordinario messaggio ribaltando il “live together, die alone” della seconda stagione. Jack e Vincent, uno accanto all’altro. Il piano e i violini. Le corde del nostro cuore che sono sospinte. La musica che s’innalza e ci avvolge tutti dolcemente. Sentiamo l’abbraccio dei Losties. L’amore che li ha legati e li legherà per sempre. Che sopravvive alla morte e permette loro di “move on”.
Sembra parlarci “Life and Death”. Sembra raccontarci una storia fatta di emozioni. La liricità sale. Jack si accascia. La musica si fa più lenta. Più semplice. Ecco gli archi che accompagnano l’incontro di Jack con i Losties. Tutti sono riuniti. Sono pronti ad “andare avanti”. La musica si eleva ancora. Un ultimo acuto. Poi: la delicatezza del violino. E quell’ultima nota. L’occhio si chiude. Il ventre uterino dell’isola accoglie Jack. La musica si ferma.
Ecco, per capire perché Lost non avrà mai un erede bisognerebbe tenere conto di tutto questo. Bisognerebbe tenere conto dell’irripetibilità di una storia che unisce semplicità, mistero e temi filosofici senza mai risultare ridondante. Bisognerebbe tenere conto degli straordinari accompagnamenti musicale. E soprattutto della capacità unica di coinvolgimento che è stata in grado di regalarci.
In un mondo seriale in cui sempre più il modello Netflix (link) a rilascio globale diventa dominante Serie come Lost rischiano di non essere più prodotte.
La scelta di realizzare stagioni o intere Serie concepite come “film di dieci ore” fa perdere il senso di un racconto da metabolizzare. E la possibilità di uno sviluppo attento e prolungato delle psicologie dei personaggi. Non può più esserci il dibattito che ha incendiato forum e pagine dedicate. Niente più teorie e confronti. Niente riflessioni e trepidanti attese. Ma non è solo questo. Lost ha rappresentato a suo tempo un evento unico nel suo genere: ha catalizzato l’interesse globale restituendo come lascito saggi esplicativi, libri politematici, giochi a tema. Ha influenzato il cinema, la tv e il mondo dello spettacolo in generale in maniera irripetibile. È diventato parte del nostro immaginario collettivo, della forma mentis di un’intera generazione (e forse più).
Lost non avrà mai un vero erede perché rappresenta più di una Serie Tv: rappresenta un’esperienza che ci ha coinvolto e formato e che non può essere sostituita. Non è possibile replicare il caso di Lost perché Lost è irriproducibile nella sua complessità, nelle infinite sfaccettatura del suo sviluppo, nella sua capacità di trasporto emotivo. Ci saranno altre Serie, seguiranno piccoli grandi capolavori e opere degne del nostro interesse ma nulla potrà replicare la fantastica, irreale convinzione di una straordinaria esperienza di vita collettiva.