È passato qualche mese da quando Netflix ha distribuito globalmente Mindhunter. Da allora, da quel 13 ottobre 2017 la Serie non ha fatto altro che raccogliere consensi da pubblico e critica imponendosi nel panorama seriale internazionale. Un successo che molti hanno ricollegato a un precedente eccellente, quello della prima stagione di True Detective. Certo, la composizione degli episodi, l’accoppiata dei protagonisti e le tematiche non possono non indurre a un confronto. Eppure, a ben vedere, nel loro sviluppo le due Serie si presentano in maniera molto diversa anche e soprattutto a livello di contenuti e analisi psicologica dei caratteri. Ma andiamo con ordine.
Alla Serie di Nic Pizzolato si richiama innanzitutto il manifesto fotografico in doppia esposizione, chiara citazione dell’immagine di Rust Cohle che appare nella sigla di True Detective.
Le immagini dei due protagonisti si sovrappongono e intersecano con uno sfondo crepuscolare e “industrial”. È l’ambiente in cui si svilupperanno le azioni di entrambi, un luogo estraniante e spesso degradato che farà da scenografia alle contorte psicologie di Rust e Holden. I personaggi, come le situazioni, con cui spesso si troveranno a confrontarsi saranno pure espressione di quegli spazi, simboli di perversione, malessere e sozzure.
Tanto Fincher quanto Pizzolato costruiscono quel microcosmo a immagine e funzione dei loro protagonisti. Macchiano i loro attori principali di quei luoghi, ne alterano la personalità, lasciano che si modellino al paesaggio. Sia Rust che Holden sono, a modo loro, scossi dalla brutalità della vita, dall’irrazionale follia, dal non senso dell’esistenza. Entrambi avranno modo di maturare il loro credo. Il nichilismo di Rust si contrappone così al razionalismo metodologico di Holden. In loro è l’inconfessato desiderio di possedere il caos, comprenderlo e dominarlo. Ma se in Rust c’è più lo stanco procedere di chi fa quello che sa fare meglio, l’inerzia di chi è dominato dall’apatia, Holden ha la vibrante eccitazione di chi si confronta con qualcosa di nuovo e potenzialmente rivoluzionario.
A far da spalla a loro sono due caratteri di maggiore esperienza che, teoricamente almeno, si trovano a supervisionarli: Tench e Marty. Tanto il primo quanto il secondo godono di una posizione gerarchica più alta e avrebbero tutti i requisiti per essere essi stessi protagonisti. Sulla carta, almeno. Perché nei fatti la loro ligia osservanza delle regole li rende subordinati alle più intriganti personalità di Rust e Holden.
Bene, ma è solo questo che accomuna e distanzia le due opere? Naturalmente no. Riavvolgiamo il nastro.
Cerchiamo di tenere bene a mente da quale situazione di partenza si vengano a costruire le personalità dei protagonisti di True Detective e Mindhunter. Rust è senza dubbio l’affascinante, coltissimo e tenebroso genio degli interrogatori. Ha quello charme da bello e dannato che lo rende fin dal primo momento estremamente intrigante agli occhi dello spettatore. Nichilista, rassegnato e acuto osservatore del mondo, la sua psicologia è piuttosto granitica e cristallizzata nel tempo.
Marty costituisce nient’altro che il contraltare che serve, nella sua ignoranza filosofico-esistenzialista, a mettere ulteriormente in risalto Rust. Un interlocutore incapace di tenergli testa, che finisce per risultare inetto, ottuso e per giunta ipocrita nelle sue disquisizioni. Tale si mantiene nel tempo: personaggio ben strutturato nei suoi pregi e difetti ma senza particolari trasformazioni psicologiche. È questa una caratteristica già messa in luce in un recente articolo di approfondimento sulle Serie Netflix. Spesso costituite da un ristretto numero di episodi e pensate come “film di otto/dieci ore”, tali opere non hanno la possibilità nella loro ristretta durata di lavorare sull’evoluzione dei caratteri.
Qualcosa di molto diverso, insomma, da una Breaking Bad che basa la sua fortuna sull’attentissima analisi del lento declino morale del suo protagonista. O meglio della riscoperta della sua essenza più vera. Una scelta, quella adottata dai lavori Original Netflix che favorisce e incentiva il binge-watching coerentemente con il metodo a rilascio globale tanto caro alla piattaforma.
Rust e Marty, dicevamo, sono delineati in maniera netta.
Seppur a fine stagione Rust registrerà uno scarto fondamentale nella sua visione del mondo, questo cambiamento non sarà lento e graduale ma in fondo già in germe nel suo carattere e/o conseguente a una “conversione sulla via di Damasco”. Le motivazioni sottese a certi suoi atteggiamenti e idee sono approfondite di episodio in episodio così che a fine stagione ci troveremo di fronte a un disvelamento della sua personalità piuttosto che a un reale percorso di lenta maturazione e trasformazione. Queste scelte in True Detective sono, come per le opere Netflix, determinate dal numero limitato di episodi e dalla necessità quindi di condensare l’azione e l’analisi psicologica dei caratteri in poche ore. Per questo motivo non troviamo ampi scorci sulla storia pregressa di Rust e Marty ma soltanto prolungate discussioni e racconti tra i due (e di entrambi con la polizia) che ci aiutano a ricostruire le vicende.
La stessa impostazione emerge anche in Mindhunter dove però i cambiamenti del suo protagonista sono meno pregressi e innati. Si può notare una più evidente trasformazione nella sua personalità legata alle situazioni in cui viene a trovarsi. È come se Holden fosse un Rust che precede la tragica morte di sua figlia e di cui progressivamente osserviamo la “conversione” negativa.
Ecco allora in che modo Mindhunter si configura come l’erede incoerente di True Detective.
A inizio azione Holden è tutt’altro che sicuro di sé. Non è affascinante, è goffo, incerto e soprattutto ha un bambinesco desiderio di scoperta. Un’immagine molto diversa da quella del cinico, stanco Rust. Holden è inizialmente l’antitesi di Cohle. Ammette candidamente di non sapere cosa ha di fronte nel primo episodio. Eppure, nel corso dell’opera inizia a maturare un cambiamento. Come abbiamo avuto modo di sottolineare nelle recensioni dedicate, il protagonista di Mindhunter inizia un progressivo percorso di autoaffermazione attraverso il quale la sua sicurezza degenera in sfrontatezza. Il crescente cinismo di fronte all’efferatezza dei delitti rappresenta l’inverso del cammino di Rust (che a fine Serie si troverà ad affermare: “Se me lo chiedessi, ti direi che la luce sta vincendo”).
La deriva di Holden è visibile soprattutto negli ultimi due episodi dove mostra noncuranza anche nell’uso di termini scurrili e provocatori pur di ottenere la confessione del suo sospettato. Non si fa scrupolo di strumentalizzare gli interrogati e segue le sue convinzioni spesso basate solo su (illuminanti) intuizioni. Il crescente autoreferenzialismo di Holden naufraga in una sovra-categorizzazione aprioristica, basata cioè su un preconcetto (la colpevolezza del soggetto o i motivi del suo gesto) che può indurre a forzare i dati a proprio favore, a non analizzare con oggettività scientifica il caso. La genialità di Holden naturalmente lo mette, almeno parzialmente (vedi il caso del preside Wade) a riparo da questo pericolo ma la sua mancanza di metodo lo rende inservibile alla neonata disciplina. Quella profilazione seriale che necessita di rigore e limiti etici ben definiti di cui Holden non si cura minimamente.
Le parole di Debbie sul finire di stagione chiariscono molto bene questo pericolo.
“Eri convinto della colpevolezza da prima di entrare. […] È un valido esperimento se lavori a ritroso da una conclusione?”. Una domanda molto simile è quella che troviamo a più riprese in True Detective sottoposta a Rust dal collega Marty. Nel primo episodio (e poi nel quarto in forma analoga) afferma per esempio dopo una lettura a freddo di Rust: “C’è forse un capitolo su uno di quei libri [su cui di documenta Rust] sul saltare alle conclusioni?”.
Un dubbio profondamente simile, insomma, a quello che palesa altrettanto retoricamente Debbie. Holden allora, sul finire di Serie, non è diventato altro che quel cinico, sfrontato, borioso (ma geniale) interprete che Cohle era stato in avvio di True Detective. In questo senso Mindhunter può essere considerata quasi una True Detective a ritroso. In cui, cioè, il percorso del suo protagonista appare l’opposto di quello di Rust Cohle, fino al finale, incontrollato e tremendo attacco di panico.