6) Under the banner of heaven
Under the Banner of Heaven, nota in Italia come In nome del cielo, è una miniserie del 2022 prodotta da FX e distribuita in Italia su Disney+. Composta da sette episodi, si ispira a un agghiacciante fatto di cronaca realmente accaduto: l’omicidio della giovane Brenda Wright Lafferty e della sua bambina, avvenuto nel 1984 nello Utah. Al centro della narrazione c’è il detective Jeb Pyre (Andrew Garfield), mormone devoto che indaga sull’efferato crimine. Nel farlo, mette in discussione non solo il proprio sistema di valori, ma anche le radici storiche e ideologiche della religione mormone. Under the Banner of Heaven non è un semplice crime drama, ma un’opera ambiziosa che intreccia investigazione con una profonda riflessione sulla fede e sul fanatismo religioso. La serie esplora la genesi del mormonismo e il modo in cui certe interpretazioni radicali abbiano alimentato visioni distorte, violente e misogine.
Il confine tra religione e delirio diventa il vero campo di battaglia della narrazione. La regia è sobria e tesa, la fotografia fredda e spettrale accompagna l’atmosfera di crescente inquietudine. AndrewGarfield regala una performance sfaccettata, fatta di dubbi, silenzi e tensioni interiori. Al suo fianco, un cast solido che include Daisy Edgar-Jones e Sam Worthington. Il ritmo della serie è deliberatamente lento, ma costruisce con precisione un crescendo emotivo e psicologico. In Italia, tuttavia, Under the Banner of Heaven non ha ottenuto il riconoscimento che merita. Pur essendo disponibile su una piattaforma di largo consumo, non è mai diventata un titolo di punta né ha ricevuto una campagna promozionale adeguata. La complessità tematica, il tono cupo e la critica implicita alla religione organizzata potrebbero aver scoraggiato una più ampia diffusione nel nostro Paese.
7) Generation Kill
Un’altra delle miniserie sottovalutate ingiustamente in Italia è Generation Kill, prodotta da HBO nel 2008 e tratta dal libro omonimo del giornalista Evan Wright. Composta da sette episodi, racconta le prime settimane dell’invasione americana dell’Iraq nel 2003, seguendo il Primo Battaglione da Ricognizione dei Marines attraverso il deserto iracheno. La serie è stata scritta da David Simon ed Ed Burns, noti per aver creato The Wire, e ne conserva lo stile crudo e realistico. Il protagonista è il sergente Brad “Iceman” Colbert, interpretato da Alexander Skarsgård. Tuttavia, l’approccio corale fa sì che ogni membro della squadra diventi una tessera fondamentale di un mosaico umano e militare complesso. La presenza del personaggio di Evan Wright stesso – interpretato da Lee Tergesen – come giornalista embedded, permette una narrazione dall’interno, filtrata da uno sguardo osservatore ma coinvolto. Generation Kill si distingue per il suo realismo estremo: non ci sono eroismi romanzati, né musiche epiche, né montaggi spettacolarizzati.
Tutto è asciutto, preciso, spesso disturbante. Il linguaggio è crudo, l’umorismo nero e le scene d’azione rarefatte ma incisive. Si racconta l’inadeguatezza del comando, l’assurdità degli ordini, l’ignoranza culturale e linguistica dell’esercito americano. Ma anche la resilienza e il cinismo dei soldati, costretti a sopravvivere in un contesto privo di coordinate morali. La miniserie è un affresco spietato sulla guerra moderna, più vicina al disorientamento di Apocalypse Now che alla glorificazione di American Sniper. È anche una critica feroce al modo in cui le guerre vengono combattute e comunicate, con ufficiali incompetenti e strategie basate sulla propaganda più che sulla realtà sul campo. In Italia, Generation Kill è passata quasi inosservata. Trasmesse inizialmente su Sky e poi relegate a poche repliche, le sue puntate non hanno mai raggiunto il pubblico ampio che meriterebbero. Forse per il tono disilluso e l’assenza di pathos patriottico, o forse per la sua natura “documentaria”, troppo distante dai gusti seriali dominanti.