So che siete approdati qui aspettandovi un articolo dal taglio più o meno professionale e perciò mi sento in dovere di avvisarvi: ciò che leggerete va più vicino a una sessione di terapia di gruppo che ai pezzi che siete abituati a trovare in pagina. Ebbene sì: sto sfruttando la mia posizione di redattrice per affrontare un trauma arrivato a minare pesantemente il mio rapporto con la serialità. Ho pensato che magari parlarne avrebbe contribuito ad attirare l’attenzione sulla questione; che forse il mio grido di denuncia sarebbe stato accolto da uno showrunner capace di spezzare la ruota e porre fine a questo atroce supplizio; che, più realisticamente, non avrei cambiato alcunché, ma mi sarei quantomeno sfogata davanti a un uditorio in grado di comprendermi. Quindi bando alle ciance: mettetevi comodi sopra una delle sedie virtuali che ho disposto in cerchio. Servitevi pure, se gradite gli stuzzichini che ho disposto sull’altrettanto immaginario tavolo imbastito per l’occasione. Nel frattempo io mi presento e, soprattutto, vi presento il dramma che mi affligge e di cui immagino che sappiate più di qualcosa: “Ciao, sono Gabriella, ho 28 anni, sono una serie tv addicted e ho la fobia dei plot twist.“
Partiamo dalla sintomatologia. Quando seguo una serie tv e le cose filano lisce, vengo colta da un’agitazione all’apparenza immotivata che mi porta a sudare freddo e dimenarmi smaniosamente sulla sedia. “Okay, dov’è la fregatura?” mi domando in preda all’ansia, aspettandomi di vederla sbucare fuori da un momento all’altro e assalirmi come una belva assetata di sbalordimento. La mia psicologa sostiene che si tratti di una reazione del tutto irrazionale, che non ha senso mettere il carro davanti ai buoi e aspettarsi il peggio quando non ci sono avvisaglie a preannunciarlo, ma all’indiscutibile competenza con cui lei esercita il mestiere la sottoscritta può contrapporre la sua solida esperienza di serializzata, esperienza da cui è ricavabile la seguente legge universale: è proprio quando sembra che tutto stia andando nella giusta direzione che devi aspettarti il plot twist a tradimento, quel colpo di scena che ha come unica ragion d’essere l’effetto sorpresa, un atto masturbatorio che, coerentemente con la sua natura, porta piacere solo a chi lo compie (e suscita bestemmie da parte di chi lo subisce).
Il copione non lo esigeva, nessuno lo aveva richiesto, ma per un insondabile motivo lo sceneggiatore di turno ha decretato che fosse una buona idea rifilarcelo e a noi non è rimasto altro che prendere e portare a casa, come facciamo con il maglione natalizio regalatoci da quella vecchia prozia semisconosciuta che, proprio come il sopracitato sceneggiatore, non ha per niente a cuore la nostra felicità.
Come tutto ciò che riguarda la psiche umana, anche la fobia dei plot twist ha un’origine precisa e non serve l’intervento di Sigmund Freud per scovarla. Lo sapete benissimo anche voi, dov’è cominciato tutto questo, dove si colloca il punto esatto in cui è avvenuta la scelta da parte degli showrunners di trasformarsi in prestigiatori decisi a impressionare il pubblico con i mirabolanti trucchi della loro bacchet— ehm, penna. Della loro penna.
Vi vedo annuire con atterrita consapevolezza mentre flashback di guerra vi scorrono davanti agli occhi come una pellicola dell’orrore e un titolo preciso si staglia nella vostra mente: Il trono di spade. La mela dell’Eden, l’origine di tutti i mali, l’iceberg contro cui quel Titanic che è il mondo della serialità televisiva è andato rovinosamente a sbattere. Chiariamoci: la serie non ha creato il concetto di plot twist, ma lo ha reso una vera e propria ossessione, e tutto per via di un enorme, gigantesco equivoco che va chiarito una volta per tutte. Il modello narrativo che Il trono di spade ha sdoganato non è quello offerto da George Martìn. Mi spiego: nelle prime stagioni della serie i colpi di scena erano funzionali alla trama, progettati per veicolarne gli sviluppi e non per il gusto di spezzare cuori e slogare mascelle (nelle ultime…be’, lasciamo stare). Ma si sa: l’autoconvincimento è una brutta bestia e ormai si è radicata l’idea che sconvolgere il pubblico fa figo al di là dell’effettiva utilità dello sconvolgimento suscitato.
Ebbene sì: la capacità di generare questo effetto è ritenuta in sé una medaglia al valore. Potrei riportare un intero catalogo di interviste in cui autore Tizio e autore Caio si vantano di aver scritto qualcosa di clamoroso, di controverso, qualcosa che non piacerà al pubblico e li renderà dei martiri dell’innovazione. Se tutto questo avesse a che fare con una sincera autorialità sarebbe legittimo e, anzi, addirittura auspicabile, ma scrivere con l’unico scopo di fare scalpore non è tanto diverso dal farlo per ottenere consenso; si tratta pur sempre di un condizionamento per cui si è disposti a sacrificare il senso del racconto.
Ora, a me questo tono da Che Guevara dello storytelling interessa poco. A questi personaggi llascerei pure credere di essere dei campioni di anticonformismo anziché un esercito uniformato alla tendenza del momento (la ricerca dello shock value a tutti i costi), se non fosse per per il tipo di storie a cui dà vita l’atteggiamento che assumono. Storie per cui la coerenza narrativa non è più un obiettivo da perseguire, ma un difetto da evitare. Storie senza un minimo di organicità e senza uno straccio di prospettiva, storie che uno schiocco di dita basta a rivoltare come un calzino. È inutile immaginare, è inutile teorizzare, è inutile provare a seguire un filo destinato a spezzarsi all’improvviso e senza alcun valido motivo. Questo perché chi tiene in mano la matassa non vuole mostrarti come si arriva a sbrogliarla; vuole solo fregarti.
Io dico che non abbiamo più bisogno di tutto ciò. Non abbiamo più bisogno di storie che siano spettacoli di magia. Abbiamo bisogno di storie che si propongano di divertire, emozionare, formare, raccontare. Abbiamo bisogno di storie che non vogliano essere altro che questo: storie.
In altre parole: non abbiamo più bisogno dei plot twist.
(Come? L’ho detto scattando in piedi e con una mano sul cuore? Pardon: mi sono lasciata trasportare dal momento. Torno seduta.)
Il punto della questione non è plot twist sì/plot twist no, come non lo è la scelta tra il lieto fine e un finale altamente drammatico. Non si tratta di dicotomie risolvibili in maniera assoluta o di posizioni da assumere per partito preso, senza essere rapportate alle esigenze che di volta in volta si presentano. Il punto è ristabilire le giuste gerarchie. Come qualsiasi strumento di cui essa può avvalersi, il plot twist deve porsi al servizio della narrazione e non essere il suo obiettivo dirimente; dev’essere un attrezzo a cui ricorrere se necessario e che è lasciato nella cassetta in caso contrario. Se l’impianto narrativo abbisogna di una certa svolta, allora la si attua, altrimenti si prosegue lungo la via tracciata dai binari sopra cui la trama scorre, senza indulgere in deviazioni inutili o cambi di rotta improvvisati. Così, di botto, senza senso funziona come motto del trio di sceneggiatori di Boris, non come modus operandi di sceneggiatori in carne e ossa. A meno che non si voglia cancellare la linea di confine che separa gli uni dagli altri e scrivere a c*zzo di cane.
Quando guardo una serie tv non voglio sentirmi sorpresa, ma soddisfatta, soprattutto considerato che al termine della visione non è previsto alcun rimborso. Se mi capita di azzeccare un pronostico, vorrà dire che la storia ha seminato briciole che mi sono potuta chinare a raccogliere, che ha saputo prendermi per mano e guidarmi verso una meta prefissata invece di farmi finire intenzionalmente fuori strada. Non è una colpa: è un merito. Più Hänsel e meno Houdini, per favore.
Bene: la seduta è finita, potete andare. Ho buttato fuori tutto quello che avevo sul groppone e mi sento decisamente meglio. Almeno fino a quando non mi imbatterò nel prossimo plot twist che non ha motivo di esistere.