La primavera 2022 si è rivelata una stagione intensissima per le serie tv di casa Rai: tanti ritorni, nuove proposte e alcuni discussi, ma seguitissimi remake, come Noi e Vostro Onore. In questa ultima stagione, Don Matteo ha cambiato volto, più giovane, e gli italiani hanno concesso addirittura la loro benedizione; sono arrivati prodotti piuttosto coraggiosi, come Solo per passione – Letizia Battaglia, e sono tornate anche le serie tv più spregiudicate, come Volevo fare la rockstar, trasmessa su Rai2. Per chi nutrisse ancora dubbi sulla dinamicità della serialità Rai, il catalogo di RaiPlay offre tantissimi titoli interessanti, diversi tesori nascosti e meno “monnezza” o flop di quanto siamo portati a immaginare. Perché un vizio che noi italiani non riusciamo proprio a toglierci è quello di lasciarci ingannare dalla mela marcia e gettare nell’immondizia tutto il cesto.
È vero, c’è stato un tempo in cui impazzavano le soap opera. Un genere che ha fatto della mediocrità la sua virtù, che in fondo inseguiva altri scopi, non certo artistici. Una febbre che si esaurita nel giro di un decennio con pochi esemplari, come Incantesimo. Forse grazie anche alla presa di coscienza inaugurata da Boris. Eppure, continuare a citare René Ferretti ogniqualvolta si parla di serie tv italiane è tanto inaccurato quanto anacronistico. In campo seriale, infatti, la Rai, come una mamma premurosa, ha sempre cercato di accontentare tutti i suoi figli, evolvendosi sì, ma conciliando sempre le spinte avanguardiste con quelle più tradizionaliste. Basta guardarci indietro per renderci conto sia della varietà, sia della differenziazione qualitativa della sua offerta.
Un’evoluzione lenta, ma senza sosta
Per qualcuno sembrerà difficile da credere, ma la tv pubblica italiana ha sempre mantenuto un certo primato di innovazione nel panorama seriale. Pensiamo agli sceneggiati degli anni Settanta, come il meraviglioso Le avventure di Pinocchio di Luigi Comencini (1972). Una delle prime miniserie a colori, innovativa, cruda e per certi aspetti ancora vicina all’estetica neorealista. Qualche anno prima, la Rai aveva prodotto due miniserie di altissima qualità, come I miserabili (1964), definita “il più lungo romanzo sceneggiato mai realizzato dalla televisione”, e I promessi sposi (1967) che ebbe un successo di pubblico e di critica travolgente. Un sodalizio perfetto tra la relativamente giovane televisione con la letteratura e il cinema. Un legame indissolubile, quello con la pagina scritta, che non ha mai cessato di esistere e che attraversa i decenni regalandoci serie tv che non hanno nulla da invidiare alla concorrenza, da Il Commissario Montalbano a L’Amica Geniale, da Rocco Schiavone a Passeggeri Notturni. Una collezione di titoli più o meno popolari che hanno dato corpo e voce alla parola scritta di molti autori illustri. L’emittente pubblica è riuscita ad arrivare prima in molte altre occasioni. Pensiamo a Un Posto al Sole: la prima soap opera italiana nonché una delle serie più longeve e più amate da un pubblico sorprendentemente eterogeneo.
Più canali, bisogni diversi
Chiunque abbia acceso la televisione almeno una volta saprebbe tracciare in pochi minuti un quadro generale delle varie offerte dei canali Rai. Le fiction del primo canale, ad esempio, sono le più adatte al grande pubblico perché nascono per essere fruite dalla famiglia al completo. Trattano tematiche appunto familiari, quelle di interesse comune. Tendono a mostrare poca violenza e tanti eroi positivi. Raccontano storie commuoventi, incoraggianti e luminose. Si tengono a debita distanza dagli argomenti troppo controversi perché il loro scopo è quello di far trascorrere piacevolmente la serata, non certo di incupirla. Don Matteo, in questo, è un vero maestro. Una fiction che non perde mai un colpo, che è capace di rinnovarsi sempre e che riesce a mettere d’accordo un pubblico molto eterogeneo. La fiction di Rai 1 è dunque una scelta a colpo sicuro che non richiede grossi sforzi decisionali. Soprattutto ora che il panorama seriale diventa un oceano dove spesso fatichiamo a orientarci.
Sarà forse per questo che Noi e Vostro Onore hanno diviso il pubblico. Due remake che non sono riusciti né a richiamare l’attenzione del pubblico emigrato su altre piattaforme, tantomeno a conquistare all’unanimità quello del primo canale. Eppure, l’operazione è il sintomo più evidente del lento, ma inarrestabile processo di innovazione. Una spinta che parte dall’interno. Nasce negli anfratti meno frequentati, poi sale e si estende fino al primo canale, lo zoccolo più duro della rete. Infatti se la fiction di Rai 1 è la tagliatella al ragù della domenica, le fiction di Rai 2 (e quelle che vanno su Rai 3, RaiPlay o gli altri canali della rete) sono un doppio cheeseburger con coca-cola o un pokè con salmone e avocado. Rocco Schiavone, L’ispettore Coliandro, Mare fuori, La porta rossa, Bangla, Buttafuori, La Linea Verticale e tante altre chicche nostrane, ma inclini alla contaminazione e che, forse, Netflix scambierebbe volentieri con Baby o Curon. Storie dal carattere più spigoloso e poco rassicurante, piene di antieroi, caratterizzate da una regia più dinamica e prive di quella patina di moralismo o di marcati intenti didattici.
Tra innovazione e tradizione
Mentre la serialità “più giovane”, innovativa e moderna frequenta i canali secondari della Rai e dello streaming (inclusa Suburra – La Serie, prodotta anche da Rai Fiction), il primo canale è quello che ancora insegue delle logiche più generaliste. Come ha scritto Aldo Grasso sul Corriere della Sera, la forza di Rai 1 è il bilanciamento perfetto tra tradizione e innovazione. Nel 2021, analizzando i dati del prime time, Grasso ha concluso che: “la fiction del primo canale continua a rispecchiarsi perfettamente nel pubblico di rete, fra tradizione e cauta innovazione”. Una scelta misurata, dunque, calcolata su un dato oggettivo: i fattori anagrafici e socio-culturali del pubblico della televisione in chiaro. Basterebbe guardare l’offerta seriale della Rai, infatti, per tracciare un quadro complessivo della popolazione dello Stivale. Rai 1 è la vetrina più scintillante, quella che – in chiaro – riesce ancora a raggiungere dei numeri considerevoli. Non certo come vent’anni fa, ma quanto basta per battere la concorrenza.
Passare il test per accedere al prime time del primo canale è un’impresa ardua perché il prodotto deve rispettare diversi parametri, ma soprattutto, deve soddisfare il pubblico di riferimento. Con l’avvento dello streaming e la nascita di piattaforme capaci di sfruttare il potenziale dei big data, la possibilità di differenziare l’offerta ha permesso di soddisfare contemporaneamente i gusti di molteplici nicchie, anche i più stravaganti. Le reti in chiaro, caratterizzate da un comprensibile approccio generalista, di conseguenza, hanno perso sempre più mordente verso coloro che avevano la possibilità di abbeverarsi ad altre fonti. Chi è rimasto fedele ai canali in chiaro, dai dati statistici, è quindi una fascia anagrafica per la maggioranza composta da over 50, da coloro che hanno poca dimestichezza con la tecnologia oppure da chi ama la fiction cosiddetta tradizionale: un gruppo cospicuo di spettatori, molto trasversale, che non può essere ignorato.
Una grossa fetta di pubblico troppo grande per essere ignorata
Nell’offerta Rai c’è dunque “Molto più di quanto immagini”, come recita il payoff di RaiPlay. La piattaforma streaming si arricchisce costantemente di produzioni proprie e non di grande valore. Eppure, sebbene sia inclusa nel canone, non è da tutti fruibile. Molti utenti, soprattutto i meno tecnologici, non riescono a trovare “il canale” e vagano tra quelli in chiaro alla ricerca di RaiPlay, cioè un App che è disponibile su smart Tv o sui dispositivi connessi a Internet. Indubbiamente tra l’offerta in chiaro troviamo molti esperimenti poco riusciti, come Cuori o Sirene, ma anche tante proposte decise e moderne, come I bastardi di Pizzofalcone, Braccialetti rossi, Imma Tataranni – Sostituto procuratore, Blanca, Il commissario Ricciardi, I Medici, La mafia uccide solo d’estate – La serie, Il segreto dell’acqua. Un’alternanza costante e sapiente di tradizione, come Lea – Un nuovo giorno o Il Paradiso delle signore, e innovazione, come le più recenti Vostro Onore o Studio Battaglia. Queste ultime due, ad esempio, sono state bollate da una cospicua fetta di pubblico come “diseducative” a causa dei protagonisti dalla moralità discutibile.
Analizzando centinaia di commenti degli utenti, e gli share, è facile rendersi conto che la maggioranza del pubblico di Rai 1, nel prime time, si aspetta una tipologia di narrazione ben precisa. La maggioranza del pubblico affezionato, infatti, ama poco le storie orizzontali spalmate su più stagioni: la stagione deve finire con una conclusione netta. La maggioranza non ama particolarmente i finali aperti e digerisce poco i cliffhanger perché fatica ad accettare il concetto di stagionalità ed evoluzione. Non predilige le storie piene di zone grigie e preferisce dei personaggi manichei. Anche alcune tecniche narrative, come i salti temporali di Noi, non sono ben accettate. Pensiamo alla prima puntata di Don Matteo 13 – quella con il maresciallo bloccato in uno schema alla “giorno della marmotta”, che ha creato scompiglio e malcontento tra coloro che pensavano ci fosse stato un errore tecnico della rete oppure addirittura in fase di montaggio! Vengono bocciati spesso anche i dialoghi che si capiscono poco, quelli coperti dalla musica troppo alta. Una vasta fetta di pubblico preferisce la recitazione tradizionale, teatrale, impostata e con la dizione perfetta. La recitazione naturalistica, quella sottovoce, con “le sillabe strascicate” e le cadenze dialettali, ad esempio, non è ben vista perché appare come una carenza nella dizione. I remake, poi, sono spesso percepiti come una brutta copia.
Gli appassionati della cosiddetta fiction tradizionale – di fatto il pubblico più cospicuo di Rai 1 – ha bisogno di storie appassionati, cariche di messaggi positivi, che non portino i giovani all’emulazione di comportamenti sbagliati. Una fiction che possa essere seguita a cadenza settimanale sia dal nipotino che dalla nonna, ma che non necessita troppa attenzione perché, in fondo, si tratta comunque di un intrattenimento leggero. Per questo Don Matteo continua a mietere vittime. Ed è per questo che La Sposa con Serena Rossi, Giorgio Marchesi e Maurizio Donadoni è stata la nuova proposta di maggior successo del 2022 (circa 7 milioni di spettatori). Un prodotto ben recitato e ben scritto che ha saputo raccontare una storia del passato, ma guardando al futuro. Il racconto di un passato storico, ma con un intento quasi di denuncia nei confronti di una mentalità retrograda a cui si vuole dare un taglio. Negli anni, infatti, abbiamo assistito alla nascita di prodotti molto diversi tra loro, ma sempre carichi di cura e qualità rispetto all’audience di riferimento. Pensiamo a L’Amica Geniale e Doc, tra i più recenti, oppure a La piovra o Il Commissario Montalbano, tra i predecessori storici, serie epocali che, a cadenza ciclica, hanno spinto la proposta seriale della rete un passetto più avanti verso un’evoluzione qualitativa e in linea con i tempi. La cosiddetta “tradizione”, quindi, non è altro che una forma riconoscibile e rassicurante di fiction che cambia ed evolve, ma senza che il pubblico possa accorgersene.
In qualche modo, La Sposa riassume in toto la visione che ha sempre perseguito la serialità Rai. Un bilanciamento costante e misurato tra spinte tradizionaliste e innovative in cui, un passettino alla volta, ci si evolve, ma senza bruschi cambiamenti di rotta.