Sono tanti i motivi per cui Rocco Schiavone può diventare il nuovo fenomeno di culto della televisione italiana, intesa come ricca tradizione di volti avvezzi a risolvere crimini nelle località apparentemente più tranquille ma segretamente tormentate da assassini e criminali di basso rango. Giallini, circondato di default da un’aria di mistero e malinconia, è ormai diventato un ambasciatore di questa categoria di personaggi, e dopo il finale dell’ultima stagione di Rocco Schiavone, sappiamo che avremo a che fare con lui ancora per un po’, fortunatamente.
Non servono effetti speciali
La grandezza di una serie come Rocco Schiavone sta nel riuscire a reinventarsi pur ribattendo sempre sugli stessi canoni. Schiavone è un personaggio letterario, un vice questore burbero e, se vogliamo, piuttosto monotono e abitudinario. Il protagonista interpretato da Giallini non fa niente per uscire dalla sua comfort zone, ma è proprio ciò di cui ha bisogno la serie per acquistare un’identità. Rocco Schiavone non ha bisogno di artefici o di snaturare se stesso o il proprio modus operandi, perché tutto ciò è proprio quello che lo rende unico. La televisione italiana si è sempre nutrita di personalità così forti e solitarie, costruendo attorno a loro sconfinate possibilità narrative che, tuttavia, non si distaccassero mai dal nucleo di partenza. Rocco Schiavone mette piede nel panorama seriale del nostro paese in un momento di transizione, in cui oltre a puntare sul solito pubblico degli aficionados del prime time televisivo, è necessario ritagliarsi nuovi spazi e nuove vetrine. Ed è lì che la serie acquista un ruolo del tutto nuovo rispetto ai classici standard del suo formato. Marco Giallini è già di per sé un attore cult, ben noto sia alle vecchie che alle nuove generazioni grazie alla sua carriera cinematografica, ed è quindi la persona giusta per intraprendere questo nuovo tipo di “missione”.
A grandi linee Rocco Schiavone ricalca esattamente tutti i tipi di stereotipi già presenti nella stragrande maggioranza delle serie tv investigative appartenenti al bagaglio italiano e, in particolare, di mamma Rai. E’ un po’ come se quest’ultima avesse deciso di proporre un grande classico del suo stile ad un pubblico che, sempre a grandi linee, non è molto avvezzo a tali tipologie di contenuto. La serie è una di quelle in cui sai già che, in un modo o nell’altro, il bene vincerà, e ci sarà sempre un valore morale o un qualsiasi insegnamento alla fine di ogni puntata e di ogni stagione, ma tutto ciò è reso comunque sopportabile dalla scelta degli interpreti e dall’a gestione delle interazioni tra questi. Schiavone non esce mai dal personaggio e non arretra di un millimetro rispetto agli avvenimenti in ambito professionale o riguardanti la sua vita privata, ma ciò non significa che questi sia impassibile nei confronti di tali cambiamenti. Schiavone è severo con i colleghi e gli affetti, soprattutto con le macchiette, rivolgendosi a loro quasi come un padre, riuscendo a far emergere in modo del tutto naturale il suo lato ironico, di cui si serve per nascondere le proprie insicurezze (che siano con le donne che frequenta o con gli amici per cui si preoccupa) e i propri tormenti (legati ad un passato che continua a rimpiangere ogni giorno della sua vita). Rocco Schiavone parla una lingua conosciuta e semplice, che riesce ad attirare differenti pubblici senza snaturare il prodotto televisivo pensato e realizzato per i canali classici della televisione pubblica, ma ritagliandosi, di volta in volta, uno spazio sempre più necessario all’interno della realtà del non lineare.
Non ci sono più le saghe di una volta
Ma in che modo, Rocco Schiavone, può sopravvivere nella giungla seriale di oggi? Tutte le serie più longeve degli ultimi anni del panorama televisivo italiano hanno puntato sul ritagliarsi una importante fetta di pubblico e sul coltivare il proprio rapporto con esso, offrendo semplicità e costanza. C’è un motivo se Don Matteo e Il commissario Montalbano sono riuscite a entrare nell’olimpo della serialità italiana e a restare a galla per così tanto tempo. Anzi, di motivi ce ne sono tantissimi, ma sostanzialmente ciò che è servito di più a questo tipo di serie è stato proprio insistere sulla ripetitività di determinati canoni, attirando un pubblico che, nel bene e nel male, c’è sempre stato. La vetrina del prime time televisivo serve proprio a questo, ossia a proporre al pubblico un appuntamento fisso che completi la routine dello spettatore, cullandolo e coccolandolo mentre si trova spaparanzato sulla poltrona e guarda, sempre più distrattamente, i risvolti narrativi della sua serie cult preferita. Può sembrare un discorso molto più generico di quanto sia, ma l’impatto di serie Rai come Don Matteo o Montalbano, se proiettato su un territorio ed un pubblico più ampio, come quello statunitense, fa emergere la reale importanza, in termini di dati d’ascolto, di prodotti di questo genere. Allora è sicuramente un mossa vincente, per la Rai in questo caso, puntare su serie come Rocco Schiavone, capaci di catalizzare la (distratta) attenzione di molteplici pubblici, diversi tra loro in fatto di gusti, ma uniti dalla stessa identica modalità di visione distratta, ma comunque pur sempre in cerca di rassicurazioni.