Nel mondo delle Serie Tv sempre più dominano il rilascio globale e mini-Serie da dieci episodi. Così, noi ‘matusa’ finiamo a guardare al passato con la nostalgia tipica degli anziani. Invece di fermarci davanti a un cantiere ci piazziamo sul divano di un amico e iniziamo a sproloquiare dei bei tempi andati. O tempora, o mores! E nel frattempo il nostro cuginetto si “spara” ben benino l’intera prima stagione di The End of the F***ing World in meno di tre ore. Un tempo molto inferiore alla durata della nostra invettiva contro il dominio Netflix e il binge-watching.
Quando ti accorgi anziano è già troppo tardi. Lo capisci perché diventi scontroso e reticente al cambiamento. Succede così che mentre tiri avanti a suon di ripetizioni impartite tu finisca a parlare di Serie Tv. Si sa, ogni scusa è buona per evitare una versione del pomposo Cicerone. “Aggiòrnati, ormai le Serie Tv sono così”. Rabbrividisci di fronte a questa improba affermazione del giovinastro di turno, lo prendi per la collottola (sì, noi anziani usiamo espressioni come ‘matusa’, ‘giovinastro’ e ‘collottola’) e lo piazzi davanti a un qualunque schermo televisivo. Fai partire con difficoltà e con l’aiuto del pubblico una vecchia Serie Tv on demand e ti immergi nel viale dei ricordi.
“Ti amo, Penny. Ti ho sempre amata”. Scende la lacrimuccia mentre il tuo infedele allievo ‘smanetta’ con qualche app dall’improbabile nome. Decidi così di sottoporlo a una meritata tortura da Guardia Repubblicana in stile Sayid Jarrah. Compiti a casa: un episodio a settimana di Lost. Uno. Non di più. Il povero cristo strabuzzando gli occhi non può fare a meno di sbottare: “Ma non ricorderò mai a distanza di sette giorni cosa era successo!”. Quasi sull’orlo del pianto provi a consolarlo somministrandogli una dose di Stranger Things da tre episodi consecutivi. Rinfrancato da quel pasto inatteso in un rigurgito d’orgoglio l’infelice ragazzotto decide di accettare la sfida. Quello che seguirà è un resoconto dettagliato di quanto accaduto.
Questa è una storia vera. Gli eventi rappresentati hanno luogo in Minnesota nel 2006. Su richiesta dei superstiti i nomi sono stati modificati. Per rispetto nei confronti delle vittime tutto il resto è stato raccontato esattamente così come è accaduto.
Settimana I: la lotta nei ricordi.
Procede a testa bassa la versione nostrana del Badger di Breaking Bad. È sfuggente e stranamente taciturno. Incalzato a suon di “We have to go back, Kate” loopato per dieci minuti alla fine confessa. “Troppi personaggi, non ne ricordo mezzo”. Sento che in lui è forte il bisogno di leggere su Internet la descrizione di tutti i Losties e memorizzarne i tratti essenziali. Gli strappo il telefono e imposto un blocco per minori esteso a ogni contenuto. Da quel momento potrà accedere solo a un sito che mostra un countdown a suon di 4, 8, 15, 23, 42. “Ma in Dark tutti i protagonisti nelle due epoche scorrono sullo schermo a inizio quinto episodio, così è tutto più facile”. Irremovibile, lo invito a mantenere fede alla parola data.
Settimana V: Badger scopre la fede. Trafelato e in preda a un delirio mistico, il giovane confida di aver “guardato negli occhi l’isola e quello che ho visto è bellissimo”. Lo invito a spegnere i bollori e continuare la visione. La tentazione di dare avvio a una maratona di due-tre giorni lo scuote tutto. Quel povero drogato di binge-watching inizia ad accusare il peso della pausa settimanale.
Settimana VII: I dolori del giovane Badger. Le crisi d’astinenza iniziano a diventare sempre più pesanti, il metadone-Stranger Things ormai non fa più effetto. Se l’è iniettato tutto nella prima settimana e ora va avanti a suon di Bojack Horseman. Nei suoi frequenti vaneggiamenti domanda compulsivo: “Ma l’isola è il purgatorio? Sono tutti morti? È tutto un sogno di Vincent? Quando muore Boone?”. Il mio silenzio diventa per lui un tarlo che inizia a corroderlo dentro. Umanamente gli offro di aumentare a tre gli episodi settimanali. Pare rinfrancato.
Settimana X: Il ricovero.
L’attesa del piacere è essa stessa il piacere? Per Badge no, purtroppo. Aprendo la sua cameretta la madre ha scoperto l’orrore: le pareti ormai svuotate di poster di Bello FiGo e Fedez si scoprono ricoperte di strani geroglifici. Ritagli di giornali e frasi sconnesse imperversano con foto di orsi polari e citazioni filosofiche. La povera donna mi confessa che il figlio ha iniziato a interrogarsi sul senso della vita, a leggere astrusi testi di empiristi ottocenteschi e a rispondere malamente a suon di “Non dirmi che non lo posso fare!”. Sono già pronto a intervenire bloccando l’esperimento quando apprestandomi al suo capezzale Badge mi confida: “Non riesco più a pensare ad altro. Mi scopro a piangere, ridere, commuovermi. A chiedermi chi sia John Locke e a voler leggere Le avventure di Tom Sawyer”. Sorrido, e mi allontano lasciandolo agonizzante.
Mi inoltro sul viale del ritorno guardando un vecchio, orrorifico manifesto di Netflix su Santa Clarita Diet che mostra un dito tagliato in salsa ketchup. Decido di fermarmi a un bar e assaporare un noto bitter. Mentre osservo il manifesto mi domando involontariamente: “E se l’attesa del piacere fosse essa stessa il piacere?”. Come un novello Marzullo provo anche a darmi una risposta. L’attesa settimanale è sofferenza, certo. È agonia infinita, desiderio irresistibile, disturbante tarlo. Eppure, in quella pausa c’è qualcosa. Ripenso alla “gioventù”, agli infiniti dibattiti con gli amici, alle teorie su quello che ci avrebbe regalato l’appuntamento della settimana successiva. Ricordo la febbricitante attesa, l’eccitazione che sale, il silenzio carico di aspettative.
In quei sette giorni di distanza si concentrava un intero mondo di riflessioni.
Un confronto che passava da forum, chat di gruppo e serate al pub. Penso anche ai tempi più recenti. Alle recensioni settimanali di Mr. Robot, ai tanti incontri con i lettori, alle loro idee e alla voglia di condividerle con me. In quel vuoto tra un episodio e l’altro della Serie Tv c’è il senso di un racconto che decide di fermarsi, di prendere fiato e indurre lo spettatore a rielaborare quanto visto. Così la vicenda si carica di significati nuovi e inaspettati. Tutto diventa più profondo e sfaccettato e anche la Serie assume il valore di una partecipazione collettiva. Diventa esperienza di vita, pensiero tra una pausa e l’altra dal lavoro. Occasione per mettere in moto la mente e sviluppare un giudizio critico.
Riaffiora allora improvvisa una frase che l’amica volpe rivolge al piccolo principe nel celebre racconto di Antoine de Saint-Exupéry. “Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò a essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e a inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità!”. L’attesa. Il momento in cui l’immaginazione può volare, in cui tutto è ancora in potenza. Tutto è ancora possibile e non c’è limite alle aspettative. Il momento appena precedente all’atto. Lì, in quel secondo, in quell’istante che anticipa il piacere si concentrerebbe secondo alcuni la vera felicità. Il mondo del possibile in cui la soddisfazione sarà più piena non macchiata dai limiti della realtà. Sorseggio il mio bitter e lascio che la vita scorra attorno a me. E se l’attesa del piacere fosse essa stessa il piacere?