Due anni, quando va bene. Quando non va bene, gli anni diventano tre se non addirittura quattro. Gli appassionati di serie tv si stanno abituando a tempi d’attesa tra una stagione e l’altra molto diversi rispetto a un tempo. Fino ad alcuni anni fa, d’altronde, una serie tv rivedeva la luce dopo pochi mesi, al massimo un anno. Oggi, invece, tutto è cambiato. Gli appassionati ne hanno ormai preso atto, ma sembrano non accettare granché la nuova condizione.
Molti prediligono la visione di serie tv concluse, meglio ancora se composte da molte stagioni e molti episodi, e le statistiche parlano chiaro in tal senso.
I successi “postumi” di Suits e Prison Break su Netflix, oltre ai costanti inserimenti tra le serie tv più viste di produzioni “datate” come Friends o NCIS, danno un indizio chiaro: al di là del fascino immortale delle produzioni citate e delle numerose altre evocabili, il pubblico sembra preferire spesso l’accesso alla libreria “storica” in alternativa alle nuove produzioni da attendere chissà quanto. Produzioni che, oltretutto, rischiano costantemente una cancellazione prima del termine naturale, per le motivazioni che abbiamo esposto in un articolo recente.
Insomma, c’è un problema: abituarsi a una nuova modalità non significa necessariamente accettarla. E gli appassionati di serie tv, a quanto pare, non vogliono arrendersi all’idea di aspettare almeno due anni per avere una nuova stagione. Ma cosa è cambiato? E, soprattutto, è un bene da altri punti di vista? Beh, la questione è complessa.
Dando un’occhiata in giro per il web, si nota da subito quanto il tema sia sensibile e, per questo, affrontato da più parti.
Stando agli ultimi mesi, per esempio, si trova un articolo pubblicato lo scorso 18 luglio dall’autorevole Entertainment Weelky, dal titolo eloquente: “Smettetela di farci aspettare così tanto tra una stagione e l’altra, per favore”. Il contenuto è piuttosto immaginabile: l’autrice evidenzia le problematiche generate dai tempi d’attesa dilatati e le profonde differenze col passato, non senza sottolineare allo stesso tempo le motivazioni più oggettive dei ritardi. Tra le altre, due spiccano immediatamente: la pandemia legata al Covid e lo sciopero degli sceneggiatori di un anno fa hanno portato a un dilatamento esponenziale dei tempi.
Tutto qui? L’articolo, in realtà, evidenzia anche altri aspetti, ma ci arriveremo tra poco.
Intanto, una domanda è d’obbligo: questo nuovo modello di produzione delle serie tv è davvero sostenibile, sul lungo periodo?
Risposta breve: con ogni probabilità, no. Una risposta più articolata è arrivata attraverso John Wells, storico produzione di serie tv del calibro di E.R. e The West Wing. Il produttore, riportato in un articolo di Vulture dal quale riporteremo anche le varie altre citazioni che seguiranno, ne è convinto: due anni d’attesa sono troppi. Due anni, ripetiamo, quando va bene: serie tv come Stranger Things, Severance o Euphoria sono prodotte e distribuite con tempistiche ancora più dilatate.
Wells è chiaro: “Il pubblico si affeziona a uno show. Quando rimane lontano per troppo tempo, è facile disinnamorarsi e dimenticare cosa lo abbia attratto in primo luogo“. E ancora: “Non avere [nuovi episodi] disponibili per un lungo periodo è uno dei motivi per cui gli show subiscono il declino anziché consolidare il pubblico. Ciò vale anche per gli show che hanno successo nel loro primo anno”.
Il produttore sa di cosa parla: “Si sta creando familiarità con i personaggi, quindi costruire un pattern è molto utile. È sempre meglio che gli show tornino il più rapidamente possibile, stagione dopo stagione. La regolarità fa sì che le persone tornino”.
Ok, è chiaro: secondo queste considerazioni, fatte da un importante addetto ai lavori, sarebbe bene tornare al vecchio sistema e distribuire le serie tv di anno in anno. E allora è naturale domandarselo: perché non lo stanno facendo? Perché le serie tv si fanno attendere così tanto? Le risposte arrivano all’interno del già citato articolo di Vulture, e si sviluppano attraverso tre punti principali.
La televisione sta seguendo le “regole del cinema”.
La motivazione numero uno è legata alle rinnovate esigenze espressive della serialità. Come ben sappiamo, da qualche anno a questa parte le produzioni hanno assunto in tanti casi delle dimensioni mastodontiche, talvolta associabili a quelle di veri e propri kolossal. Produzioni più grandi, tuttavia, portano con sé anche tempistiche più lunghe. Come spiega un dirigente dello streaming riportato da Vulture, “gli show sono diventati più grandi, gli effetti speciali sono complicati e richiedono molto tempo”.
I confini tra la tv e il cinema sono sempre più sfumati, non sempre in positivo. E riguardano, spesso, anche i numerosi impegni lavorativi degli attori coinvolti, specie se d’alto profilo. A proposito di una potenziale gestione dei tempi più concisa, il dirigente è chiaro: “È semplicemente impossibile, visto quello che c’è da fare. È come chiedere un film e poi un sequel nel giro di due anni. Può succedere, ma è piuttosto dura”
L’articolo entra poi nel dettaglio sulle varie modalità applicate, ma ciò che ci interessa in questo momento è solo un aspetto: ne vale davvero la pena? Da un lato, le serie tv sono diventate quello che sono diventate nell’era della golden age anche grazie a questo passaggio, ma dall’altra è evidente che negli ultimi anni si sia creato un solco tra la qualità media espressa dalle serie tv degli ultimi 15-20 anni e quelle dell’ultimissima fase.
Certo, non mancano le eccezioni, ma sono sufficienti per giustificare un modello produttivo tanto pesante? Sì, in parte. Servono però dei compromessi. E così si arriva a un secondo punto, ovvero…
… gli autori di oggi sono meno veloci
Questo stupirà più di qualcuno: la forza attrattiva della tv rispetto al cinema ha portato con sé anche un’evoluzione dei processi creativi. Anche in questo caso, però, ci sono dei limiti: “Quella che era una volta un’enorme porzione intermedia del business cinematografico è scomparsa. Molti produttori, registi e sceneggiatori del settore si sono spostati verso la tv”, spiega uno scrittore esperto del piccolo schermo. Tuttavia, “provenivano da un sistema diverso in cui le cose richiedevano più tempo per essere realizzate e hanno portato quel tipo di approccio in tv”.
In pratica, gli autori si sono adattati ai modelli televisivi con una sintesi più proiettata verso il loro “vecchio” mondo rispetto a quello nuovo: “Fare otto ore di serie tv non è la stessa cosa che fare un film di due ore”, afferma il dirigente coinvolto. Cambiano le modalità di scrittura, e si arriva talvolta a una certa confusione tra le parti. Chi è al comando? L’autore o il regista? Non è sempre chiaro.
Il problema, a quanto pare, non riguarda solo i tecnici “emigrati” dal cinema alle serie tv, ma anche la nuova leva di autori televisivi: “Un’intera generazione di sceneggiatori televisivi non è stata formata sui modelli da 22 episodi”, afferma il dirigente. “Dovrebbe essere semplice girare otto o dieci episodi di uno show di mezz’ora, ma non hanno quella attitudine. Non hanno esperienza nello scrivere velocemente e nello scrivere molto”.
Sognate il ritorno ai vecchi modelli? Queste considerazioni, fatte dagli insider, non sono molto rassicuranti.
Il nuovo modello delle piattaforme di streaming
Si arriva al terzo e ultimo punto: lo streaming ha cambiato le carte in tavola. La richiesta dei network, infatti, è legata a una consegna di interi pacchetti, non di pacchetti da sviluppare in corso d’opera. Per intenderci, quando John Wells tirava fuori gli episodi settimanali di E.R. e The West Wing per la NBC, sostiene che ci fossero “quattro o cinque settimane tra il momento in cui si finiva di girare un episodio e il momento in cui poteva andare in onda”. Nello streaming, invece, “possono volerci sette o otto mesi, anche fino a un anno, prima di mandarlo in onda”.
Oltre alle questioni tecniche già citate, infatti, le piattaforme necessitano di tempi più lunghi per adattare e doppiare i prodotti prima di destinarli ai vari mercati. Mercati internazionali, spesso coinvolti simultaneamente. E non solo: le incertezze sul potenziale rinnovo di una serie tv fanno sì che non si possano accorciare i tempi tra la messa in onda e la preparazione di una nuova stagione, a partire dal processo di scrittura. Ne avevamo parlato qualche tempo fa a proposito delle modalità applicate da Netflix per decidere se rinnovare o cancellare una serie tv: quei tempi, oggi, sono imprescindibili.
Il ritorno al futuro delle serie tv
Insomma, ormai è chiaro: i famigerati due anni d’attesa tra una stagione e l’altra sembrano essere insormontabili. Sembrano, almeno. Si torna, così, alla domanda con cui abbiamo intitolato il pezzo: due anni tra una stagione e l’altra sono lunghi, ma sono davvero troppi? Non sono troppi, con la concezione attuale dei modelli produttivi. Esiste, tuttavia, un’alternativa: “tornare al futuro”.
Non è un caso l’utilizzo di questa espressione: l’avevamo già usata qualche tempo fa per esporre il futuro dello streaming (e non solo dello streaming) in relazione alle serie tv. In quel caso, evidenziammo l’esigenza radicata di contrarre i costi, ridurre il numero globale di serie tv e distribuirle diversamente. Riavvicinarsi, in sostanza, ai modelli della tv tradizionale, mai davvero accantonati in nome di una rivoluzione riuscita solo in parte. In tal senso, si riaffaccia all’orizzonte l’idea di coinvolgere autori e produttori storici come lo stesso John Wells, non a caso impegnato attualmente su un nuovo procedural medical in arrivo su Max nel 2025, intitolato The Pitt. L’obiettivo? Arrivare a una stagione da quindici puntate da distribuire settimanalmente, con l’auspicio di portare avanti una programmazione annuale.
L’obiettivo è ambizioso, ma non sono gli unici che si stanno muovendo in questa direzione.
Serie tv impegnative come The Bear e From sono riuscite finora a garantire una distribuzione annuale, mentre Netflix sta facendo altrettanto con due serie tv che hanno ottenuto un grandissimo successo: The Lincoln Lawyer e The Diplomat. Per il momento si tratta di casi isolati, ma i malumori del pubblico nei confronti dei lunghi tempi d’attesa potrebbero segnare presto un’inversione di tendenza più marcata: l’ultima parola, d’altronde, è sempre del mercato.
Le lezioni del passato potrebbero così combinarsi con le esigenze del presente e del futuro, modellando le linee guida di una nuova era per le serie tv. Una nuova era… vecchia. Wells è convinto che le possibilità per applicarle ci siano: “Dobbiamo solo riprendere l’abitudine e penso che il pubblico ci premierà”.
Andrà davvero così? Oppure è solo un’illusione? L’alternativa è solo una: riguardare per l’ennesima volta i primi episodi di Stranger Things, vedere un cast composto da bambini e poi ritrovare, nove anni dopo, degli adulti nell’ultima stagione che andrà in onda nel 2025. Va bene scommettere sulla qualità, certo. Ma quando è troppo è troppo, dai.
Antonio Casu