Oggi, dinnanzi al panorama delle serie tv italiane che sono state realizzate in questi ultimi anni, è impossibile non prendere consapevolezza del fatto che la qualità sia divenuta uno dei requisiti più ambiti e ricercati. Abbiamo assistito all’esordio di coproduzioni importanti come I Medici, L’amica Geniale e Diavoli, che ci hanno fatto sperare in una tv nazionale di grande spessore, capace di farsi valere anche all’estero.
Ma se c’è qualcosa che continua ancora oggi a essere al di fuori della nostra portata è la creazione di contenuti che riescano a raccontare adeguatamente la Generazione Z.
Facciamo subito chiarezza.
Con l’espressione Generazione Z facciamo riferimento alla generazione che segue ai millenials. Per farla breve, i nati nella metà degli anni ’90 e l’inizio dei 2000, solitamente considerati capaci di cavarsela con ogni genere di apparecchio tecnologico e inseriti nel mondo dei social media. Sembrerebbe infatti che il comparto produttivo della serialità italiana non abbia ben compreso le dinamiche reali che intervengono nei contesti sociali di questi giovani ragazzi e ragazze, o meglio, faccia finta di non vedere quella che è la verità. Il principale problema è che molto spesso i nuovi prodotti generano clamore pubblico con grandi campagne pubblicitarie, estensioni crossmediali, pervasività della quotidianità degli spettatori.
Tutto ciò crea enormi aspettative sulle serie tv italiane palesemente tradite poi dagli esiti derivati dalla loro visione.
Senz’altro si tratta di un dato preoccupante che rischia poi di rendere il pubblico avvezzo a svalutare un debutto o un prodotto inedito che potrebbe invece distinguersi dal resto. E questo proprio a scapito magari di qualche nuova perla condita di coraggio. Parlo di coraggio e non uso un altro termine perché sembra essere proprio questo ciò che manca alle nostre narrazioni.
Per meglio intenderci, procediamo con degli esempi.
Parliamo di Baby, serie evento italiana del 2018. Questa produzione della piattaforma Netflix ha fatto in modo, grazie alla sua osannante campagna mediatica, che il pubblico si auspicasse qualcosa di audace, una narrazione per certi versi cruda e schietta. Non uso certo aggettivi eccessivi, trattandosi di una storia di prostituzione minorile e che in quanto tale dovrebbe connotarsi per un certo spirito di denuncia, di condanna e di sensibilizzazione. E invece, ancora una volta, si scade nella caratterizzazione dei personaggi in maniera convenzionale, saturando i contesti, forzando gli snodi narrativi al limite dell’inverosimile ma soprattutto edulcorando la realtà. E quindi non mostrandoci, ad esempio, scene di sesso, nonostante il losco giro in cui le due protagoniste vengono coinvolte si basi su questa attività.
Ma questo non è l’unico caso di prodotto che ha scontentato il pubblico italiano.
Giusto qualche tempo fa, è approdato su Netflix un altro esempio di prodotto blando e insipido: Summertime (che smontiamo qui). Liberamente ispirata al più famoso romanzo di Federico Moccia, Tre Metri Sopra il Cielo, la serie racconta le vicende di un gruppo di adolescenti all’inizio dell’estate sulla riviera adriatica. Nonostante alcuni elementi tecnico-formali apprezzabili, ad esempio con una fotografia capace di restituire l’atmosfera estiva, possiamo avanzare numerosissimi dubbi sulla riuscita di questo prodotto.
La storia dimostra di essere lineare, prevedibile, i personaggi piatti e bidimensionali, i sentimentalismi invece sono vittima di una standardizzazione. Quindi quello che vediamo è uno spaccato di realtà che sembrerebbe messo in scena senza una preliminare analisi sociologica di ciò che un gruppo di ragazzi di questa età possa vivere. Certo, potrebbe considerarsi una prodotto finalizzato a un’evasione dalla realtà per incontrare un mondo immaginario fresco, privo di preoccupazioni. Ma il risultato non è un granché e l’identificazione, anche se avviene, è pur sempre parziale. Questo perché ciò che i giovani vivono e affrontano non è mica così roseo, spesso i problemi sono altri e sono complessi da affrontare.
In mezzo a queste osservazioni, non possono mancare però i riconoscimenti che alcune serie tv italiane meritano.
Possiamo promuovere a pieni voti Skam Italia (qui la recensione dell’ultima amatissima stagione). Il principale motivo per cui è oggi una delle serie più viste dal pubblico italiano è nella sua varietà di temi. Nelle quattro stagioni del teen drama, la scelta su cosa trattare è ricaduta su importanti questioni come l’omosessualità, le malattie mentali, il revenge porn, la libertà di culto e il femminismo. Non banalità, non tormentati drammi amorosi e neanche rappresentazioni stereotipate, ma storie reali, di cui possiamo percepirne la prossimità sociale.
La sceneggiatura accurata riesce a farci immedesimare, a farci provare ciò che i personaggi sentono. I loro drammi, le loro insicurezze, le loro gioie e i loro entusiasmi ci giungono con estrema autenticità. Questo ci fa sperare che si possa creare un racconto in cui la realtà italiana traspare nelle sue specificità senza però abbandonare l’ambizione di essere eterogeneo e inclusivo.
Ribadiamo e sosteniamo fermamente questa teoria: le serie tv italiane dovrebbero osare facendo proprio della verosomiglianza un punto di forza. E questo senza i paletti che una televisione generalista può imporre o critiche che l’opinione pubblica può scatenare.
L’Italia ha bisogno di prodotti che raccontino il vero mondo di questi giovani, spesso additati come fortunati, con una vita libera da preoccupazioni che non siano quelle amorose o legate alla popolarità di un post su un social media. Abbiamo bisogno di storie in grado di sensibilizzare questa platea di spettatori, di educare i più giovani al rispetto, alla cultura della differenza, alla valorizzazione della diversità. Solo rappresentando la complessità che caratterizza il periodo dell’adolescenza di questa generazione si può realizzare qualcosa di davvero incisivo, che rimane lì, fisso nell’immaginario, e riesce a empatizzare con un pubblico che finalmente si riconosce in ciò che guarda.