Le persone sono arcistufe del politically correct nelle serie tv, ma sono altrettanto stanche delle persone che urlano sempre al politically correct. C’è chi lo chiama dittatura ideologica, chi lo definisce una manovra di marketing, chi inneggia al perbenismo e chi invece è finalmente contento di vedere sullo schermo una rappresentazione più eterogenea e multiculturale. Comunque sia, c’è sempre il rischio di farsi prendere la mano, e anche Netflix talvolta ha un po’ esagerato in questo senso. Non si tratta della moda del momento, ma di un movimento animato da ideali egualitari e progressisti nato negli ambienti liberali statunitensi negli anni Trenta, che da allora ha avuto un ruolo significativo nelle battaglie sul riconoscimento dei diritti delle minoranze. Pur essendo carico di buoni propositi, come fa notare Treccani, sin dalla nascita è sempre stato accusato da alcuni di conformismo linguistico e di tirannia ideologica che limita la libertà d’espressione. Il motivo per cui oggi non facciamo altro che parlarne è perché si è creata una coincidenza storica nella quale c’è ancora tanto bisogno di promuovere degli atteggiamenti inclusivi, di combattere il razzismo e di restituire la voce che per secoli abbiamo rubato alle culture non occidentali.
Quindi se le intenzioni sono così ammirevoli, perché il politicamente corretto di Netflix risulta talvolta eccessivo?
Perché ogni tanto la scelta di campo è stata troppo radicale, e ha finito paradossalmente per percorrere solo a metà la strada dell’inclusività. Pensiamo a Fate – The Winx Saga, Ragnarok, Barbari e Black Mirror. Poi c’è il caso di Lupin, che sebbene non sia un caso di blackwashing perché il protagonista non è Lupin, Netflix ha voluto farlo credere con una campagna pubblicitaria confusa. Le persone che criticano questo atteggiamento non sono diventate tutte razziste e omofobe (certo, quelle esistono purtroppo) ma sono preoccupate che alcune manovre compiute nel nome dell’inclusività sfocino in azioni di censura e revisionismo storico fino a cadere nel tranello della cancel culture. Invece di portare benefici nella lotta per l’uguaglianza, con certe scelte la piattaforma rischia di alimentare solo confusione e incomprensione.
Fino a che punto si può riscrivere la storia? Tarantino è noto per aver cambiato alcuni capitoli tristi della storia, ma la sua è una scelta artistica e con il suo genio può spingersi dove vuole. Il discorso, al contrario, non si può replicare per alcuni titoli Netflix di cui vogliamo parlare oggi: vediamo quindi cinque serie tv che sono emblema di questo atteggiamento.
1) Bridgerton (2020)
Il dramma in costume che ha debuttato su Netflix lo scorso Natale non ha bisogno di presentazioni. C’è chi lo ama e c’è chi lo odia, di sicuro non c’è nessuno che non ne ha mai sentito parlare. I motivi del cicaleccio incessante intorno alla serie prodotta e sceneggiata per Netflix da Shonda Rhimes – l’ideatrice di Scandal – sono veramente tanti. Tra questi c’è quello più controverso, ovvero la valanga di polemiche avanzate in merito alla scelta del cast e ai cambiamenti apportati al romanzo di Julia Quinn, da cui la serie è tratta. Va precisato che Bridgerton è una serie di fantasia che non ha nessuna pretesa storica e nasce con l’intento di offrire un intrattenimento spensierato, pop e un po’ monello.
Il pubblico però non ha digerito le noncuranze storiche, prima su tutte l’etnia del cast. Infatti per interpretare il Duca di Hastings e la Regina Charlotte sono stati ingaggiati degli attori afrodiscendenti. Le vicende sono ambientate nel mondo dell’alta società londinese ottocentesca, la Regency Era, un contesto storico non proprio noto per essere multietnico e dove un nero non avrebbe occupato una posizione importante. Shondaland è acclamata per le battaglie a favore della diversità. La maggioranza delle critiche infatti non riguarda il colore della pelle in sé, ma il revisionismo storico e le scelte perbeniste che risultano mosse più dagli interessi di marketing che dagli ideali. Gran parte del pubblico non ha accettato il tentativo maldestro di rendere moderno un periodo storico che non lo è stato affatto. Viene da chiedersi se non sarebbe meglio dare spazio a storie originali e narrate da nuovi punti di vista invece di riscrivere quelle esistenti in maniera forzata.
2) The Witcher (2019)
The Witcher è una serie polacco-statunitense creata da Lauren Schmidt Hissrich e basata sulla Saga di Geralt di Rivia dello scrittore polacco Andrzej Sapkowski. La showrunner ha precisato più volte che la serie non è un adattamento del celebre videogioco, ma dei libri, per rassicurare i gamer scioccati davanti al cambiamento di etnia dei diversi personaggi chiave come Triss, alcuni elfi e Fringilla. Netflix ha giustificato il riadattamento in nome della rappresentanza etnica mentre l’ideatrice, sotto assedio, ha accusato i fan di razzismo. Il problema è sempre lo stesso: perché stravolgere una storia ambientata in un preciso contesto culturale, in questo caso la cultura slava medievale, e restituire ai fan dei modelli lontani dal loro immaginario?
Per il personaggio di Ciri (descritto nel libro come una ragazza bionda e di carnagione chiara) all’inizio si cercava un’attrice BAME (black, asian, minority ethnic): inutile dire che metà dei fan insorsero. Si tratta di razzismo oppure è solo l’insofferenza davanti all’ennesimo stravolgimento di un’opera iconica nel nome di un’apparente scelta inclusiva? L’idea di Netflix di voler essere politicamente corretta a tutti i costi rischia di generare l’effetto opposto. Alcuni hanno gridato alla dittatura mentre altri si sono detti felici di vedere in tv una rappresentazione etnica veritiera sostenendo (giustamente) che un attore dovrebbe essere preso solo per le sue capacità artistiche e non per il colore della pelle.
3) Troy: Fall of a City (2018)
La miniserie prodotta da Netflix insieme a BBC, liberamente tratta dall’Iliade, ha ricevuto delle critiche così dure che fanno male. Ad alzare il polverone è stata anche la scelta del cast: Achille, Enea e Zeus sono interpretati da attori afrodiscendenti. Non sono caduti i lampi dal cielo, ma l’opinione pubblica ha tuonato. C’è chi sì è appellato alla descrizione che Omero fa di Achille (capelli biondi e fluenti) e chi ha contestato il fatto che storicamente nell’Antica Grecia non potevano esserci dei neri. Ricordiamo però che l’Iliade non è un’opera storica, ma un poema epico ambientato presumibilmente attorno al XII secolo a.C. nell’Asia Minore, quindi prima di gridare allo scandalo ci vorrebbe un’accurata indagine storica e filologica.
Eppure anche in questo caso l’opinione pubblica ha accusato Netflix di aver esagerato con il politicamente corretto. Sta diventando difficile capire se si tratti di scelte coraggiose oppure se siano solo delle operazioni fatte per alimentare sterili polemiche che aumentano gli ascolti. Un Achille nero (l’attore David Gyasi) non dovrebbe farci indignare; è la forzatura che ci impedisce di capire se si tratta di una scelta di comodo oppure di un atto rivoluzionario compiuto in una serie mainstream per restituire alle minoranze la voce che meritano.
4) Cursed (2020)
Tocchiamo un altro tema molto caro al politically correct: il femminismo. In realtà anche in questa serie fantasy creata da Tom Wheeler e Frank Miller c’è altro che ha turbato i fan: Artù è interpretato da Devon Terrell, un attore afrodiscendente e il cast è stato giudicato troppo multietnico per un’ambientazione medievale, ma di questo abbiamo già parlato sopra. Cursed non ha entusiasmato il pubblico per tanti motivi, tra questi c’è quello di aver reinterpretato la leggenda di Re Artù, di Merlino e di Excalibur in una prospettiva femminile. Al centro della vicenda c’è Nimue, alias la Dama del Lago, una giovane dotata di poteri e di una spada leggendaria mentre i personaggi chiave della storia arturiana sono relegati a ruoli macchiettistici.
Il problema non è certo la volontà, lodevole, di dare più voce ai personaggi femminili. Ma se si vuole percorrere la strada del femminismo si deve farlo fino in fondo, con consapevolezza e senza inciampare nel paternalismo. In poche parole o si possiede una penna sensibile – magari quella di Phoebe Waller-Bridge, la creatrice di Fleabag, uno dei pochi lavori contemporanei squisitamente femminista – oppure si lascia perdere. Nel caso di Cursed la svolta femminista risulta una mossa di comodo per dimostrare di aver dato spazio alle donne, ma alla fine ci ritroviamo con una storiella piena di banalità e retorica buttata là, alla rinfusa, senza credere poi troppo a questa cosa chiamata empowerment.
5) Saint Seiya – I Cavalieri dello zodiaco (2019)
Per restare in tema di contentino femminista dobbiamo parlare del caso del remake firmato Netflix dell’anime cult basato sul manga giapponese di Masami Kurumada. Shun di Andromeda, uno dei personaggi chiave, nel riadattamento televisivo è Shaun, una ragazza. La decisione è stata presa in nome del politically correct più estremo con la (nobile) motivazione di inserire una donna nel gruppo di eroi guidato da Pegasus. Fin qui nulla di male se non fosse che stravolgere il genere del personaggio ha compromesso il senso stesso della narrazione. Anzi, a guardarla bene questa scelta sembra essere intrisa di maschilismo.
Shun è un personaggio maschile con un carattere singolare per essere un cavaliere, infatti è amato proprio per la sua sensibilità, gentilezza e inclinazione alla non violenza. Farlo diventare una donna conferma il pregiudizio che un ragazzo sensibile sia un effeminato. Quindi belle le intenzioni, ma disastroso il risultato. Il mondo degli anime non ha bisogno di stravolgere il genere dei personaggi perché ha già delle donne guerriere. Quindi forse avrebbero potuto produrre una serie incentrata su un personaggio femminile esistente piuttosto che creare un riadattamento tirato per le orecchie.