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La religiosità nelle Serie Tv

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Qualche tempo fa una nota testata di ispirazione cattolica pubblicava un articolo carico di virulenza contro le Serie Tv e il pressappochismo che trasmettono in fatto di religione e fede. Ma è proprio così? In massima parte purtroppo sì. Bisogna ammettere che la preparazione teologica degli autori è spesso lacunosa se non del tutto inesistente. L’approccio è sicuramente quello improntato all’agnosticismo e all’ateismo ormai dominanti nel campo televisivo.

Molto spesso la tematica religiosa occupa un ritaglio striminzito nell’economia delle trame e i preconcetti si moltiplicano immancabilmente.

Esistono però delle eccezioni che noi di Hall of Series vogliamo presentare per mostrare il rovescio della medaglia e andare in soccorso delle nostre amate Serie Tv. A ben vedere, infatti, la ricerca di religiosità rappresenta un bisogno diffuso anche nel tempo attuale. E la televisione ha captato questa impellenza rendendosi ancora una volta interprete popolare.

“La religione di questo mondo” è l’emblematico titolo di una recente pubblicazione a cura di V. S. Severino basata su appunti dello storico delle religioni Raffaele Pettazzoni. Una visione, quella contenuta nel saggio, fatta propria – con inevitabili semplificazioni divulgative – da una piccola ma significativa parte del palinsesto televisivo. Una religiosità immanente, viva, non proiettata al compimento di una vita futura ma radicata nel presente, nei rapporti umani e nell’amore. “Il regno di Dio è in mezzo a voi” [Lc 17,21] è già messaggio evangelico, così come “l’ama il prossimo tuo come te stesso”, regola d’oro del Cristianesimo. Queste tematiche sono riprese e sviluppate in maniera tutt’altro che banale in alcune Serie Tv che varrà la pena prendere a modello nel nostro percorso di rivalutazione del mondo seriale.serie tv

E non si può non iniziare questo percorso da un’opera che ha costituito uno spartiacque fondamentale nel campo televisivo. Lost ha coinvolto un nugolo di appassionati riuscendo a coinvolgere intellettualmente ed emotivamente il suo pubblico per sei corpose stagioni. Nonostante pecche e lungaggini gli autori (J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber) hanno avuto ben chiaro fin dall’inizio il senso – e la conclusione – del racconto. Dal punto di vista religioso la Serie Tv presenta il percorso tutto umano del suo protagonista, Jack Shephard. In lui si incarna l’uomo di scienza, il medico. Nel corso della vicenda lo vediamo rifiutare ogni aspetto soprannaturale e approcciarsi a ogni circostanza con estremo razionalismo.

Jack rappresenta l’emblema dello scientismo.

Di quella smodata e arida visione che riduce tutto a un causalismo cartesiano escludendo i “buchi neri che costellano la realtà e mettono costantemente in dubbio […] il senso stesso del conoscere” (A. Vallega). Non c’è spazio per l’ignoto e per il mistero. Lentamente però inizia un percorso quasi iniziatico di progressivo disvelamento. Jacob, il deus ex-machina di Lost, tocca i Losties, in momenti cruciali della loro vita. Un atto religioso per eccellenza: nella Bibbia la mano è l’organo del corpo che ricorre più volte. E nel Nuovo Testamento l’incontro con Gesù passa sempre attraverso un suo tocco, il contatto del divino con l’umano. La realtà trascendente che si fa carne concreta e si relaziona all’uomo; che stabilisce un rapporto con lui. Che “chiama” l’uomo.

Allo stesso modo Jacob “chiama” Jack che procede lentamente nella sua conversione. Nel suo graduale cambiamento.

Il protagonista, piegato in due in una profonda riflessione nell’episodio 6×05 (“Il faro”), è l’uomo che interroga se stesso. Una versione contemporanea de “Il pensatore” di Rodin. L’uomo che mette in dubbio le proprie certezze e accetta il mistero che è nel mondo (altro tema caro a Pettazzoni). Come ricorda Kris Kelvin, protagonista del capolavoro di Tarkovskij “Solaris”: “Una domanda vuol dire sempre desiderio di conoscere, e per conservare le semplici verità umane, ci vogliono i misteri; il mistero della felicità, della morte, dell’amore”. Perché la risposta finale non è nello stolido razionalismo ma neanche in una fede cieca (che conduce alla morte il miracolato Locke).Serie Tv

È in qualcosa di intangibile eppure incredibilmente reale: l’amore per l’altro e il mistero che sta dietro questo sentimento. Nel finale è proprio l’amore che salva i Losties. Che permette ai protagonisti di ricongiungersi e superare il trauma della morte e “andare avanti”, come afferma il padre di Jack, Christian Shephard. Dove non è dato saperlo. Perché “altrove c’è l’Altrove. Io non mi occupo dell’Altrove” (Jep Gabardella).

Parlando di religiosità non si può poi non menzionare il più recente successo di Paolo Sorrentino, The Young Pope, esordio televisivo per il pluripremiato regista.

Protagonista della Serie Tv è Lenny Belardo, un papa giovane e atipico. Una figura contraddittoria e sfaccettata. Un personaggio che porta su di sé il peso del credere. Nel silenzio di Dio, tema biblico e bergmaniano, si staglia il dubbio di fede condiviso tanto dal credente quanto dall’agnostico: è il dubbio che erompe nel Papa con la pesante ammissione davanti alla suora Surey, nel quarto episodio, in quel “non sei la sola a dubitare” pronunciato a mezza bocca e distorto da un difetto di trasmissione dell’apparecchio acustico della giovane religiosa. Come ricorda quel fine teologo di J. Ratzinger: “Tanto il credente quanto l’incredulo, ognuno a suo modo, condividono dubbio e fede […]. Nessuno può sfuggire completamente al dubbio, ma nemmeno alla fede; per l’uno la fede si rende presente contro il dubbio, per l’altro attraverso il dubbio e sotto forma di dubbio”.

È tutt’altro che un papa granitico, Pio XIII: è una figura drammaticamente umana e bisognosa di certezze.

Nella sua teologia c’è spazio tanto per l’ammissione più genuina del messaggio di Cristo e della figura di un Dio misericordioso quanto per l’immagine severa e incombente del rigido Signore dell’Antico Testamento. Ancora rivolgendosi a Surey, afflitta orfana di sua sorella, pronuncia un monito: “Non devi inseguire i morti, Surey, altrimenti i morti inseguiranno te” che ricorda molto da vicino l’evangelico “lascia che i morti seppelliscano i morti”. A cui segue però la condanna intransigente (“Smettila di piangere, Surey. Basta! I credenti non piangono, piangere è sbagliato!”).

In Lenny convivono l’idea di una bellezza da vivere, anche sessualmente (“non bisognerebbe mai vergognarsi della propria bellezza perché Dio ci chiede di gioirne”) e l’intransigente condanna della possibilità di amare altri che il proprio sposo; quand’anche questo fosse, come ammette l’amica Esther, “un insopportabile peso” perché viceversa “avresti solo dolore e l’insopportabile peso della colpa”. In lui è la bellissima convinzione di una preghiera che si fa riflessione profonda con se stessi, silenzio di fronte al mondo e al caos della vita. In quell’attimo il soffio divino ispira pensieri nell’uomo. Eppure, dopo aver rimbrottato Esther perché pregare “non deve essere un elenco di richieste” è lui stesso rivolgendosi alla Madonna a ordinare con ostinazione e durezza, come un bambino capriccioso, che il miracolo avvenga, che Esther possa concepire. Quel “tu devi” che è imposizione autoritaria.

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Insomma nel protagonista di The Young Pope coesistono queste anime, diverse e spesso opposte, parte, nel loro insieme, di un personaggio modulato per ricalcare i diversi poli e discrasie del cattolicesimo moderno, dal più profondo e caritatevole amore per l’altro allo sterile, reazionario e intransigente rispetto del dogma. A suo modo, come il Cristo di San Luca, anche Lenny è segno di contraddizione.

L’Antico Testamento è il percorso dell’uomo e dell’incontro con Dio. Il Nuovo quello di Dio con l’uomo.

Nelle Serie finora affrontate abbiamo visto come i personaggi battano queste due strade, come vengano a loro modo colpiti dalla presenza/assenza di Dio. Le orme archetipiche dell’umanità sono ricalcate anche in una Serie Tv solo apparentemente molto lontana dall’aspetto religioso. Si tratta di WestworldL’idea di fondo giganteggia per tutta la Serie: se l’uomo è una complessa macchina di natura, quanta umanità può scaturire da un apparecchio tecnologico? Come Dio, il vecchio Ford (Anthony Hopkins) crea a sua immagine e somiglianza. E come Dio, Robert Ford infonde l’anelito vitale attraverso la parola.

E questa “nuova umanità” (quasi un transumanesimo houellebecquiano) inizia il suo percorso biblico. Maeve, la bella maîtresse del Mariposa, acquista coscienza di sé svincolandosi dalle posticce “rimembranze” (falsi ricordi impiantati per rendere più “umano” l’androide). Lo fa attraverso un’ossessiva ricerca della verità sulla sua natura. A peso di una morte per strangolamento, aggrappata a stralci di memoria, Maeve si autoimpone il risveglio nel mondo reale. Si avvia alla piena umanizzazione abbandonando la beata incoscienza di sé. E fuoriuscendo da quel paradiso terrestre (forse poco paradisiaco) che è il parco di Westworld.

Vi è poi Robert che scopriamo non essere altro che un Ford bambino cristallizzato nell’unico ricordo felice dell’infanzia dell’anziano fondatore del parco. La voce di Arnold che gli comanda di uccidere il cane così che quest’ultimo smetta di uccidere a sua volta non è altro che la voce di una coscienza viva seppur esterna. Westworld ci restituisce insomma un’umanità che acquista coscienza di sé come Adamo; che mente a Dio, qui nella fattispecie al suo creatore, il dott. Ford; e che infine uccide (Caino). Un’umanità nuova che ricalca il biblico procedere dell’uomo.Serie Tv

Dalla breve analisi proposta su tre fra le migliori Serie Tv in circolazione dovrebbe essere emersa una tendenza diversa rispetto a quella dominante.

Un’attenzione tutt’altro che fugace e sbadata alle tematiche religiose. In Lost come in The Young Pope e in Westworld la ricerca di senso e l’indagine sulla fede sembrano accompagnare passo passo la narrazione. L’uomo (o un suo discendente/surrogato) inevitabilmente è sempre al centro dell’analisi. E la risposta che giunge a conclusione di tutto sembra essere sempre la stessa, seppur in percorsi autonomi: l’umanità, quella autentica, trova il senso di tutto (e soprattutto di se stessa) nell’amore. È l’amore che permette ai Losties di passare oltre. È il ricordo dell’amore di gioventù che vince la rigidità di Lenny. Ed è l’amore (reale) per la figlia (posticcia) che porta Maeve a scoprirsi umana.

L’amore è paziente, è benigno l’amore; non è invidioso l’amore, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. L’amore non avrà mai fine.

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