All’alba del nuovo millennio, il futuro del genere crime in Tv sembrava destinato a ruotare intorno alle nuove frontiere della tecnologia. L’avvento di una Serie Tv come CSI e il successo tale da generare spinoff e svariati tentativi di imitazione, è emblematico in questo senso. La polizia scientifica acquisiva una ribalta mai avuta prima, con mezzi a disposizione imprescindibili per identificare l’assassino di turno.
“Non esiste il crimine perfetto” recitava il mantra di Gil Grissom, geniale entomologo che, passando al setaccio con pazienza e meticolosità la scena del crimine, scovava la prove necessarie a ricostruire il delitto. Finendo così per rubare la scena a Jim Brass, il detective con cui era solito collaborare. La figura cioè che siamo abituati a veder sbrogliare la matassa.
Negli anni 2010 questa tendenza si è sensibilmente ridotta. Il raggio d’azione delle nuove Serie Tv si infatti è spostato dalla scena del crimine alla mente del serial killer.
In ogni Serie Tv di solito si sceglie di dare più spazio a un aspetto in particolare dell’indagine, mostrando solo marginalmente il lavoro del resto dei collaboratori. In pratica è una scelta fatta a monte: si sceglie di raccontare la storia dal punto di vista del protagonista (sia esso un medico, un poliziotto, un consulente, un prete o chi più ne ha più ne metta) e della sua squadra, specializzati in un determinato ambito sul quale indugerà, per forza di cose, la lente d’ingrandimento.
L’attuale momento storico vede andare per la maggiore le Serie Tv che studiano la psiche criminale. I protagonisti di questo genere scavano nei torbidi meandri di menti efferate, provando a comprenderne le motivazioni e cercando di ricavarne un messaggio o un disegno per prevenirne le mosse future.
Non è difficile comprendere le motivazioni dietro questo cambio di rotta stilistico. Viviamo in un epoca in cui la curiosità morbosa intorno al profilo psicologico di un killer è diventata un business alquanto redditizio, in ogni campo. Sempre più spesso i media cavalcano l’onda di un delitto andando a scandagliare il passato di vittima e carnefice, generando indici di ascolto e profitti stellari. Con buona pace della deontologia professionale, accantonata senza rimorso alcuno nella corsa spietata all’esclusiva.
David Fincher, come dimostra Zodiac prima e Gone Girl poi, è da sempre attentissimo al circo mediatico che si scatena intorno a un omicidio. Come il collega Christopher Nolan però è prima di tutto sinceramente colpito dai misteri della mente umana. Dalla sua ambiguità di fondo alla sua volubilità a seconda delle circostanze.
Non poteva che esserci la sua mano (in veste di produttore esecutivo) dietro Mindhunter, la Serie Tv forse meglio realizzata tra le tante di questo nuovo approccio al crimine.
Un filone, come detto, cominciato diversi anni fa con Serie come Lie to Me, Mental e The Mentalist. Show tra di loro simili, non tanto a livello qualitativo quanto per impianto narrativo e soprattutto per la comune attenzione allo studio della mente. Solo nell’ultimo anno, oltre a Mindhunter, Netflix ha rilasciato uno stuolo di produzioni in linea con quanto appena detto: Manhunt: Unabomber, La Mante, Tabula Rasa e l’ultimo arrivato, L’alienista.
Nello stesso anno in cui il cinema riscopre e apprezza la vecchia scuola del giallo alla Agatha Christie, riportato in auge da Kenneth Branagh con il suo fortunato remake de Assassinio sull’Orient Express, la serialità di contro punta molto sui crime psicologici. Non che questo approccio introspettivo sia un’esclusiva di tale genere, visto e considerato il ruolo e l’importanza della psicologia in capolavori come I Soprano o In Treatment (ne abbiamo già parlato qui)
Le Serie Tv odierne rendono psicologo chiunque perché, attualmente, è così che vuole il pubblico.
Questa overdose di psicologia seriale è figlia altresì di una categoria di spettatore sempre più esigente. Un pubblico che pretende di scavare nel background di personaggi profondi e ben caratterizzati.
L’oggetto della domanda che più spesso ci poniamo in queste Serie Tv non è tanto chi è? a compiere l’omicidio, ma perchè?.
Lo spettatore vuole conoscere le ragioni che portano al collasso il comportamento socialmente accettabile di un individuo. Vuole flirtare con il male, immedesimarsi con esso e perfino empatizzare con chi compie orribili misfatti, se giustificati da un movente seducente e ben articolato. È un viaggio nelle tenebre che affascina e allo stesso tempo mette alla prova il comune buon senso. Le ipocrisie della società vengono messe alla berlina proprio per metterne in discussione il senso di giustizia.
Il detective, lo psicologo, o più in generale il protagonista sono semplicemente il mezzo attraverso il quale esploriamo la natura e la filosofia del villain. È colui che si sacrificherà per noi, scendendo nell’abisso e affondando le proprie mani nel pattume di amoralità e dissolutezza per arrivare alla verità. Rischiando di non venire più fuori come la persona di prima.
Come afferma Daniel Brühl ne L’alienista: “Devo vedere la vita come la vede lui, sentire il dolore come lo sente lui, percorrere la sua stessa strada. Sì, devo seguirla dovunque mi porti, anche se mi porterà nella fossa più oscura dell’inferno”.
Il distacco emotivo con cui assistiamo alla guerra psicologica tra villain e protagonista ci permette di cogliere analogie e differenze tra bene e male.
Viene meno quel senso di giudizio e di biasimo aprioristico che molte Serie riservano ai responsabili delle malefatte. Finiamo per venire catapultati in processo lungo e tortuoso, un esame di coscienza al termine del quale, una volta esaminate le motivazioni delle parti in causa, avremo tutti gli elementi per decidere con chi schierarci. Un approccio a tratti troppo indulgente con chi non lo meriterebbe, ma necessario a comprendere tutte le sfaccettature e le ambiguità in seno a ciò che un tempo etichettavamo come malvagio, senza porci troppe domande e senza analisi alcuna.
Spesso il confine tra giusto e sbagliato è talmente labile da dipendere esclusivamente dal punto di vista. Secondo il Joker di Alan Moore, nel suo The Killing Joke, tutto ciò che separa i sani di mente dagli psicopatici è una brutta giornata.
“Basta una brutta giornata per ridurre alla follia l’uomo più assennato del pianeta”
Questo concetto viene ripreso di frequente. L’umanizzazione dell’antagonista induce a una riflessione su quanto sia precario l’equilibrio che ci tiene a distanza di sicurezza dal suo modo di intendere la realtà. La narrazione finisce per focalizzarsi più su questi aspetti che sulla risoluzione del caso in sé, curandone maggiormente i dettagli. È questo il tratto distintivo di questo genere così in voga nell’ultimo decennio.
Queste Serie Tv non si limitano a raccontare storie in cui il buono acciuffa il cattivo, in cui l’assassino è un personaggio monodimensionale di cui conosciamo poco e niente. Sono show che si rivolgono a un pubblico che ha voglia di addentrarsi nel modo di pensare e di vedere la realtà di ciascuna delle parti in causa, pronto a mettersi in discussione armato solo del proprio codice morale. Al pubblico cioè che preferisce vivere la vicenda come fosse la spalla del protagonista nei suoi interrogatori.