Nel 2013 Netflix irrompeva nel panorama seriale con House of Cards, la sua prima serie tv originale che venne rilasciata in blocco. Prima di allora avevamo diverse possibilità, legali, come quella di aspettare l’uscita settimanale degli episodi oppure la fine della stagione, o della serie tv stessa, e comprare il cofanetto in DVD per divorarlo in un sol boccone. La maratona e il binge-watching sfrenato erano già uno sport praticato. E lo facevamo con tutto: fumetti, film, serie tv e libri. Ma la scelta strategica di Netflix ha dato vita a una sindrome compulsiva, rivoluzionando il modo stesso di guardare la tv. Nel 2020 uno studio di The Ringer – con i dati raccolti da Parrot Analytics – mostrava invece che la distribuzione settimanale era la soluzione più adottata dalle piattaforme streaming. Anzi, era perfino aumentata del 30%, in particolare quella di Apple TV+, di Prime Video e di HBO Max.
Attualmente, infatti, la strategia di mercato dei servizi streaming sembra favorire il rilascio settimanale, proprio come “ai vecchi tempi”. Forse la pandemia ci ha permesso di riscoprire il piacere di rallentare? Possibile. Netflix è stata furba e ha capito come sfruttare un bisogno innato dell’essere umano, bramoso del tutto e subito. Sky e NOW, TIMvision e in particolar modo Disney+, invece, continuano a tifare per la strategia opposta mentre Amazon Prime Video propone delle formule di rilascio ibrido. Nonostante la formula mordi e fuggi della piattaforma con la N seduca di più, quella basata sul nostalgico “effetto attesa” spopola.
Non esiste una modalità di visione univoca né quella di distribuzione vincente. Senza contare che ognuno di noi guarda le serie tv un po’ come vuole e che le piattaforme continueranno a optare per la strategia che riterranno più opportuna. Ma una tendenza predominante c’è, come conferma anche l’analista Murphy, secondo il quale il modello di uscita settimanale sarebbe il migliore. È vero, ognuno è libero di guardarle nei modi più disparati, ma da un punto di vista emotivo, lo studio conferma quanto sosteneva Aristotele: l’essere umano è un animale sociale. La sua inclinazione lo porterà, anche senza rendersene conto, a preferire sempre quelle soluzioni che favoriscono l’interazione umana. E l’appuntamento fisso settimanale asseconda questa inclinazione. Vediamo perché
Una puntata rilasciata a settimana contro l’uscita in blocco: può la modalità di rilascio di una serie tv influire sul suo successo?
Una modalità asseconda il bisogno di immediatezza, favorendo il binge-watching solitario, l’altra ci lascia in attesa, stimola la fantasia e ci permette di immaginare cosa potrebbe succedere nel prossimo episodio, perfino insieme ad altri fan come noi. The Mandalorian, WandaVision, The Falcon and the Winter Soldier su Disney+ hanno tratto un enorme vantaggio dal rilascio settimanale. Così come The Boys di Prime Video, rilasciata a frequenza settimanale a partire dalla seconda stagione. Oppure Better Call Saul, una delle poche serie tv distribuite da Netflix in modalità settimanale, una scelta però obbligata.
Questa modalità di rilascio, infatti, cavalca un hype continuativo, che non si limita solo alle settimane precedenti l’uscita della stagione o della serie. Oltre a essere una modalità più salutare, il rilascio settimanale fa bene alla narrazione e alla socialità. Se è vero che rischia di diluire troppo la storia, sempre secondo Murphy, l’uscita cadenzata degli episodi permette di assorbire meglio gli sviluppi della trama e ci aiuta a legare con i personaggi, stabilendo con loro un legame più duraturo. Non solo, ma innesca il passaparola e un cicaleccio costante sui social. Un appuntamento prestabilito, infatti, alimenta un’onda di interazioni febbrili tra le persone, che si intrattengono per lunghi periodi di tempo. Tra un episodio e l’altro, per ingannare l’attesa, non ci resta che scatenarci in conversazioni sia analogiche, sia digitali in cui formuliamo teorie, supposizioni, pareri e dove è possibile prendere posizioni contrarie o a favore di una scelta narrativa. Lo schieramento nei confronti di un personaggio, o una scelta narrativa, di conseguenza, rafforza sia il legame con la serie, sia quello tra le persone reali. Come fa il teatro ancor prima di Aristotele.
La modalità di rilascio, quindi, potrebbe determinare addirittura il successo di una serie tv. Non solo per degli ovvi motivi economici, cioè il profitto degli abbonamenti, ma appagando il nostro bisogno di condivisione. Pensiamo a storie che ci sfiancano a livello emotivo, come The Handmaid’s Tale. Arrivata in Italia in blocco il 26 settembre 2017, a partire dalla seconda stagione, la serie tv ha proseguito con un rilascio lento. Il consumo ingordo di The Handmaid’s Tale, oltre a provocare delle ripercussioni psicologiche impreviste, impedisce alla storia di sedimentarsi. Per non parlare delle tematiche che tratta: argomenti controversi che hanno bisogno di un approfondimento più ragionato e che, se condiviso, ci arricchisce perfino di nuovi punti di vista.
Una ricerca pubblicata sulla rivista Group Processes & Intergroup Relations conferma infatti che le serie tv possono contribuire a costruire legami all’interno di un gruppo sociale e a far nascere dei dibattiti costruttivi in cui prendere posizione. La serialità, di per sé, ci permette di vivere una storia che dura di più e di viverla da più angolazioni. Ci dà la sensazione di trovarci al fianco dei personaggi con i quali trascorriamo dei lunghi periodi di tempo. Netflix ha fatto del rilascio in blocco la sua forza. Una garanzia che ci lascia vivere un’esperienza immersiva. Ma consumare una serie tv in modalità binge accorcia l’arco temporale in cui calarsi nella narrazione. È vero, l’esperienza sarà più intensa, e il successo dei suoi Originals dimostra l’efficacia di questa strategia. Abbiamo quasi l’impressione di vivere e respirare insieme ai nostri protagonisti preferiti, ma una volta conclusa la visione, nel giro di qualche giorno, sostituiremo quella storia con un’altra. E così ripeteremo a oltranza l’operazione, facendo spazio nella nostra memoria a nuove vicende. Potremmo decidere di gustarcele con calma, una puntata a settimana, ma verrebbe a mancare una componente determinante: fra poco ci arriviamo.
E se Dark fosse stata somministrata con un rilascio lento?
Dark, Stranger Things, The Witcher, Squid Game, The Crown e La Casa de Papel: serie tv che abbiamo fagocitato come un verme solitario nello stomaco di Netflix. Eppure, per alcune di esse, il rilascio settimanale avrebbe permesso allo spettatore di godere a pieno della storia. Di metabolizzare tutte le informazioni per arrivare alla puntata successiva più preparato. La comprensione dell’albero genealogico di Dark, ad esempio, sarebbe stata facilitata dal rilascio settimanale. Per non parlare della componente più importante, quella sociale. Seguire un episodio alla volta, in contemporanea con altri appassionati, ci fa sentire parte di una community con cui interagire. Durante un’eventuale puntata di Dark avremmo potuto seguire un hashtag per sfogare la nostra frustrazione. Mentre il giorno dopo avremmo potuto analizzare con altri series addicted quanto visto nell’episodio appena trasmesso. Avremmo avuto l’opportunità di approfondire i passaggi narrativi più ostici, oppure di riaprire i libri di storia, ad esempio con The Crown, per scovare analogie e inesattezze.
Soprattutto con Stranger Things e La Casa di Carta, Netflix dimostra di voler sfruttare l’hype dei mesi precedenti all’uscita di ogni stagione per poi buttarla in pasto a noi lupi famelici. Un grande hype, dunque, ma nemmeno 2 giorni per consumarlo. Pensiamo a La Casa de Papel: l’abbiamo commentata per una settimana, poi tutto si è spento (e per fortuna! Diranno molto di voi). Se la serie tv spagnola è riuscita a creare un fenomeno di massa arrivando sulle scene tra l’entusiasmo generale per poi abbandonarle nel giro di un weekend, immaginate cosa avrebbe potuto scatenare con il rilascio settimanale? Il rischio di questa operazione frenesia è anche quello di non dare la possibilità di rimettersi in pari. Chi non riesce a sintonizzarsi al momento dell’uscita, resta fuori dalla bolla. Un po’ come arrivare a festa ultimata e ritrovarsi da soli in una stanza dove restano bicchieri sporchi, coriandoli, vomito e vagonate di spoiler. “Ma io non guardo mai gli episodi tutti insieme, neanche quando escono in blocco”, potreste obiettare. Eppure è impossibile obiettare sul fatto che l’unica modalità che mantiene viva l’attenzione collettiva per un lungo periodo di tempo sia il rilascio settimanale. Una soluzione che favorisce la nascita di eventi televisivi continuativi, come quello per eccellenza dell’ultimo decennio: Game of Thrones.
Game of Thrones: i mondiali della serialità
Abbiamo atteso ogni stagione e ogni puntata come facevamo con il calendario dell’avvento. Ogni finestrella era preceduta da una settimana di attesa e di trepidazione. Era possibile perfino riconoscersi tra fan, incrociando lo sguardo sul treno. Game of Thrones ha lasciato milioni di spettatori con il fiato sospeso una settimana dopo l’altra, ripetendo l’operazione per 8 anni. Non c’è dubbio che sia stato uno degli eventi seriali più appassionanti del decennio passato: il mondiale di calcio della serialità. Un evento meta-televisivo condiviso che ci ha segnato. Come per una partita di calcio, infatti, l’eccitazione non nasce dall’evento in sé, ma dalla possibilità di interagire e di partecipare. La possibilità di vivere un’esperienza in diretta aiuta anche a immedesimarci con il nostro personaggio preferito (o con il calciatore e la calciatrice), che ci accompagnerà nella quotidianità, scandendo il ritmo delle nostre settimane. Il finale di stagione, andato in onda in Italia il 27 maggio 2019, ha segnato la fine di un’epoca. Siamo cresciuti con Jon, Arya e Daenerys, e non soltanto perché la serie tv è durata quasi un decennio. Soprattutto perché la modalità di fruizione ci ha permesso di affezionarci a loro, come faremmo con una persona reale. Così come è stato un evento televisivo il ritorno di Twin Peaks. La terza stagione, arrivata nel 2017, ha generato un hype della portata epocale e ha accompagnato gli spettatori in un viaggio di 18 episodi dal 26 maggio fino all’8 settembre (proprio come ai vecchi tempi).
Gli episodi dal vivo rappresentavano un punto fermo della programmazione televisiva prima dello streaming e stanno tornando in auge dopo “l’era Netflix“. Il rilascio settimanale è la risposta a un bisogno umano perché rappresenta la modalità interattiva per eccellenza. Permette agli spettatori di riunirsi, anche fisicamente, e di scatenarsi sul web con post, commenti, meme e hashtag per diverse settimane o addirittura mesi. Il tempo è l’ingrediente responsabile del successo del formato seriale. A differenza di un film, una serie tv è concepita per durare più ore. Questo permette ai suoi creatori di sviluppare espedienti narrativi ad hoc, come gli episodi bottiglia o i cliffhanger, che graffiano emotivamente lo spettatore. La serialità ci permette di immedesimarci con i personaggi, creando con loro un legame profondo che si rafforza appunto con il tempo. Se poi aggiungiamo anche un intervallo temporale dilatato tra un episodio e l’altro, il legame con il personaggio e con la storia non può che uscirne rafforzato.
La fruizione in blocco annulla l’effetto seriale
Il vantaggio della serialità sta quindi nell’attesa e nella sospensione del “arrivederci alla prossima puntata”. Il rilascio in blocco, invece, gioca sul bisogno compulsivo di gratificazione immediata, ma annulla “l’effetto serialità”. La differenza tra una serie tv e un film, infatti, è data dalla modalità di fruizione che determina anche la scrittura e la struttura narrativa. Il linguaggio seriale è plasmato sul mezzo di distribuzione. Guardare una serie tv in modalità continuativa equivale a guardare un film più lungo dei canonici 90/140 minuti. Quindi non facciamo altro che rivivere lo strazio del naufragio del Titanic in quel cinema dove Leo è affondato, ma con più sigle, archi narrativi, colpi di scena e morti improvvise. Il punto di forza della narrazione seriale consiste nella capacità di eccitare e coinvolgere lo spettatore facendo leva sui frequenti colpi di scena, sulle morti di personaggi importanti, sui twist narrativi che nei film sono – per ovvie ragioni – limitati.
Il rilascio in blocco contraddice dunque il concetto di serialità. Una serie, di per sé, è una storia frammentata. Altrimenti sarebbe un film intervallato da pause fisiologiche. Il cliffhanger stesso, uno degli espedienti narrativi più caratteristici, perdere di senso se vediamo una puntata dietro l’altra. È vero che ci pesa attendere addirittura i 10 secondi dello “skip” e della sigla. È vero che l’agonia di non sapere cosa succederà ci trapassa il cuore. Ma consumare una serie tv nell’arco di una serata, o di un weekend, annulla il ritmo della storia, e con esso il senso stesso della narrazione a episodi fissi e cadenzati. Pensiamo a Friends, che per 10 anni ha scandito l’anno, festeggiando insieme a noi perfino le feste comandate. La fruizione in blocco, tra l’altro, vanifica gli sforzi di scrittura. Forse dovrebbe esistere una sorta di prescrizione dello sceneggiatore, come si fa per le medicine. Un messaggio che accompagna ogni serie tv in cui si consiglia la modalità di consumo migliore. Una cosa tipo: per favorire l’assorbimento si consiglia la visione della serie X, due puntate a settimana, ogni giovedì dopo i pasti.
Certo, una volta rilasciata l’intera stagione ognuno può guardarla un po’ come, dove e quando vuole. Ma non c’è dubbio che il rilascio settimanale ci disciplini. Ci frena dal desiderio compulsivo di spararci intere stagioni nottetempo e ci abitua a un ritmo rilassato, che possiamo addirittura condividere. In questo modo non solo abbiamo più tempo per conoscere e innamorarci di una storia ma addirittura, se seguiamo la programmazione, possiamo viverla e condividerla con gli altri in tempo reale. L’appuntamento settimanale scandisce la quotidianità e in qualche modo ci unisce, facendoci sentire parte di una comunità composta da milioni di malati seriali come noi.