Che ci piaccia o meno, non si può più tergiversare: il piccolo schermo è l’ottava delle arti. E se un tempo al piccolo schermo si associava la sola televisione, in contrapposizione alla cosiddetta settima arte del grande schermo, oggi potremmo definirlo un termine cappello nel quale far rientrare anche gli schermi dei nostri pc e per estensione, le serie tv. Nate come intrattenimento di serie b, oggi non solo sono prodotti di grandissima fattura per produzione, regia e fotografia, ma anche dei veri e proprio trampolini di lancio verso e dal cinema. Ormai non è raro vedere grandi attori di cinema in una serie tv o, viceversa, grandi attori di serie tv avere successo al cinema. Il proverbiale vaso di Pandora è stato scoperto e a oggi le serie tv sono diventate una delle forme d’intrattenimento e di lavoro più importanti del mondo multimediale.
Questo ovviamente, come tutto, ha dei risvolti sia positivi che negativi. Se da una parte infatti questa sorta di “promozione” ha portato un’attenzione maggiore nella serialità da parte di importanti, registi, sceneggiatori e attori, dall’altra ha sicuramente causato una vera e propria corsa all’oro che sta rivoluzionando il sistema. Negli ultimi anni abbiamo assistito a una prolificazione incontrollata di serie tv ma anche di piattaforme streaming, le quali ormai si contendono il mercato a suon di compra-vendita dei diritti. La produzione massiva ha reso estremamente più veloce il turnover tra le serie tv, che appaiono e spariscono spesso nel giro di una sola stagione o addirittura meno. Nell’epoca del binge-watching e dell’infinito dibattito tra rilascio in blocco o settimanale, la fruizione della serialità è fulminea e la barra del pubblico altissima.
Quindi perché molte serie tv di oggi non riescono a superare lo scoglio della terza stagione?
Va da sé che il motivo non è unico, ma ci sono tutta una serie di fattori che si incastrano e che hanno tutto a che vedere con la rivoluzione della serialità moderna di cui accennavamo. Noi ne identificheremmo principalmente due: la velocità di fruizione e la dipendenza dai dati. Ovviamente il discordo è generalizzato, quindi è applicabile un po’ a tutte le serie tv e a nessuna, perché poi a questi due bisogna aggiungere altri elementi, quali il periodo di uscita e la piattaforma dove viene rilasciata la serie, il target di riferimento, il genere e una buona dose di fattore “c” che non guasta mai. Detto ciò, però, proviamo ad analizzare questi due aspetti.
Come abbiamo già accennato, la produzione ormai massiva di serie tv ha inevitabilmente accelerato sia il processo di creazione che quello di giudizio. Non è raro che il destino di una serie tv si decida nel giro di un solo mese in piattaforma. Il tempo è denaro, si dice, e nel caso di prodotti che ormai raggiungono la raffinatezza (e i costi) del cinema è vero ancora di più. Poiché il giudizio è così rapido da entrambe le parti della barricata – ossia utenti che guardano e piattaforme che ospitano – va da sé che una serie dev’essere scoppiettante già da subito per poter fare breccia nei dati di visualizzazione e nel cuore di chi guarda. Non c’è più pazienza nell’attendere che una storia si scaldi a lungo e questo va sicuramente a danno di molti prodotti seriali. Quante volte vi sarà capitato di dire: “sì, le prime stagioni sono lente ma poi migliora”? Ecco, questo oggi renderebbe molto più difficile la vita di molte serie tv. Un esempio tra tutti la tanto tiepida prima stagione di The Office, ma in realtà è il destino di molte comedy, che migliorano col tempo.
C’è però un altro lato della medaglia nel fattore velocità, che spesso non si tiene in considerazione e forse potrebbe essere riassunto da una serie come La casa di carta. Non c’è alcun dubbio che sia l’esempio principe di quanto detto: al di là della qualità, è riuscita ad attirare sguardi e visualizzazioni come un magnete, diventando un vero e proprio caso mediatico. La velocità in questo caso non ha fatto altro che rimpolpare il fenomeno. Però, allo stesso tempo, La casa di carta ha risentito di un calo qualitativo nel corso del tempo, come se la velocità iniziale l’avesse in parte bruciata. Una cosa simile potremmo dirla, per esempio, per il fenomeno 13 Reasons Why esplosa come un caso assoluto, è andata calando di stagione in stagione fino a spegnersi con bassissimi ascolti e poco apprezzamento.
Questo perché se i prodotti sensazionali nascono per dare subito il meglio di sé, subiscono di più lo scorrere del tempo e non reggono le lunghe distanze.
Questo spesso accade proprio intorno alla stagione tre, perché è quella che potremmo definire di consolidamento. Se la prima è la novità assoluta, la seconda tendenzialmente è quella che viene trainata dalla curiosità generata dalla prima. La terza stagione è quella che definisce il percorso della serie e spesso non regge il confronto con la curiosità (magari altissima) generata dalle prime due. Un esempio su tutti potrebbe essere American Gods: sia chiaro, American Gods aveva un’infinità di problemi dietro le quinte, ma la prima stagione era stata una cosa stratosferica sia a livello di storia che di grafica che di stile in generale. Purtroppo una seconda stagione un po’ a vuoto e una terza poco chiara hanno dato il colpo di grazia. La terza stagione si conclude con un cliffhanger pazzesco ma è chiaramente un po’ troppo tardi. Budget, ascolti e velocità ne hanno decretato la fine.
La situazione di American Gods si ricollega all’altro fattore che abbiamo preso in considerazione, quello della dipendenza dai dati. Come decidere, nel marasma di serie tv e prodotti di tutti i tipi, quali tenere e quali no? Ovviamente con un occhio costante a tutti i dati, che dall’avvento delle piattaforme si sono di molto complicati. Non più semplice share, ma percentuale di serie aperte, percentuale di ore viste, visualizzazioni, seguito sui social e sulla stampa tradizionale… infiniti i fattori per cancellare o salvare una serie, a volte persino in contrasto tra loro. A volte piegate a logiche aziendali interne che noi non conosciamo. In ogni caso, però, questi dati sono fondamentali per decretare una decisione.
Questa dipendenza dai dati però porta come conseguenza non solo un stato di perenne insicurezza sia per gli spettatori che per gli addetti ai lavori, ma anche un problema a livello di progettazione della storia. Non possiamo fare di tutta l’erba un fascio, ma è capitato e capita spesso che la storia debba essere in parte o completamente modificata per scelte legate a logiche di cancellazione. Ecco che molto spesso i progetti nascono come one-stand di una sola stagione (con possibili aperture) in attesa che dati e ascolti decretino la possibilità di andare avanti. Oggi è davvero poco comune trovare progetti nati già conclusi, con una storia già completamente sviluppata dall’inizio alla fine e senza possibilità di modifiche dovute al picco/collasso di ascolti.
L’esempio più eclatante degli ultimi anni è stato forse Breaking Bad, con un piano progettuale già stilato fin dall’inizio di cinque stagioni, ma possiamo ricordare anche la più recente Absentia con Stana Katic – progettata per concludersi alla terza stagione – e la ben più famosa The Leftovers. Lo stesso Damon Lindelof, creatore e sceneggiatore di Lost, aveva sottolineato in un’intervista che il suo era un progetto nato per finire alla terza stagione. Infinite, invece, le serie nate con un forte concept ma senza una progettazione a lungo termine: basti pensare a Broadchurch (conclusa alla terza stagione), Ash vs Evil Dead, Bloodline, Chiamatemi Anna, Designated Survivor… tutte serie con un progetto non definito in partenza, ma decisamente amate da una fetta di pubblico eppure cancellate per ascolti non soddisfacenti.
In altri casi, invece, abbiamo serie che dalla loro avevano una fonte cartacea molto forte a cui rifarsi e che comunque non hanno superato lo scoglio della terza stagione. Tra i casi più eclatanti ricordiamo per esempio The Expanse, cancellata alla terza stagione su Syfy, recuperata da Amazon Prime Video e diventata una serie tv di punta della piattaforma fino alla sesta stagione.
Cosa ne ricaviamo però da tutto questo?
Innanzitutto che la logica dietro alla salvezza o meno di una serie è complessa e fuori dal nostro controllo. Spesso fuori dal controllo della stessa produzione. Una storia d’impatto, veloce e interessante sin da subito non è garanzia di successo; così come neanche ascolti favorevoli lo sono. Spesso intervengono altri fattori legati al budget, a problemi dietro alle quinte, una direzione di scrittura sbagliata o addirittura una scelta errata di target e piattaforma. Da moltissimi punti di vista, la terza stagione risulta la più complessa, uno snodo delicato e fondamentale.
Quello che noi come utenti possiamo fare è cercare di avere pazienza e dare supporto alle nostre serie tv preferite, in attesa che i metri di giudizio vengano ricalibrati e la scrittura torni a staccarsi dai dati. Siamo dei sognatori.
Io personalmente starò ancora qui ad attendere la quarta di American Gods e Che Odino me la mandi buona.