Era un suono quasi vuoto nella sua poesia. Minacciava la tranquillità del silenzio, ma con raffinatezza, quasi a sfiorare il tempo appoggiandosi con le note a mezz’aria. Entrava in testa chiedendo il permesso con quel suo suono infinito che non aveva pretese se non lasciarsi ascoltare e incontrare il pensiero dell’uomo che cercava inutilmente di anticipare la fine dell’eco di quell’accozzaglia di note.
Quell’eco era la sola, unica maceria rimasta nell’aria, l’unico suono spento che tradiva il rallentare del tempo. Mentre intorno lo spazio e i minuti si facevano pesanti, ardui a passare, l’eco riportava fedelmente i battiti della melodia scanditi dai ricordi di un passato vicino, ma ormai non più così tanto. Qualcosa era andato perduto. Forse il senso di completezza che la porcellana senza crepe stava a simboleggiare o più semplicemente un futuro ideale che ormai non aveva possibilità di riuscita.
Il passato sembrava stesse per scomparire in quegli istanti, accompagnato dal suono leggero delle emozioni di chi, quella tazzina, l’aveva vista intatta solo pochi attimi prima. Quando con evidente e inconsapevole ritardo si era accorto dell’imminente caduta. L’aveva seguita con lo sguardo, da quando il pregiato e raffinatissimo bordo esterno era scivolato via dalle sue mani, lasciando solo poche dita con l’ultimo ricordo delle decorazioni sull’orlo solo sfiorate, fino allo schianto sordo a terra.
Il tempo si era fermato, non poteva far altro che allontanarsi e guardare da lontano le certezze che toccando terra si frantumavano. Nel suo dolore cercava invano di tornare padrone della scena, prima che fosse troppo tardi, ma ormai Hannibal aveva lasciato che la tazzina cadesse a terra e si rompesse. Aspettava un po’ prima di distogliere lo sguardo, aspettava che quei frammenti smettessero di fremere sotto l’eco della caduta non ancora del tutto svanita, per capire come si sarebbe ricomposta. Dopo un ghigno insoddisfatto guardava finalmente altrove, dove l’effetto del rallentamento del tempo non aveva lasciato tracce. Quella lì era la sua essenza, vivere nell’inganno di un tempo fermo che ferma tutti fino a quando la tazzina non comincia a ricomporsi. Ma era ancora a terra, rimaneva lì come sempre, nelle stesse condizioni, come una rassegnazione compiuta che non smette di arrendersi.
In un altro tempo, in un altro regno la tazzina caduta a terra è stata raccolta. Forse più resistente, più spessa al dolore, ha sopportato la caduta e solo scheggiata è tornata in vita. È rinata come simbolo di un amore ancora nascosto che sarebbe stato svelato con il tempo. È di questa tazzina sbeccata il merito di aver fatto evolvere la personalità di un uomo fino ad allora solo. La possibilità di prendersi cura di un oggetto non canonico, di una sintonia imperfetta, ha saputo trovare casa in un cuore freddo e ormai da tempo inutilizzato. La tazzina che non è rimasta a terra, che non si è rotta con l’ultimo ricordo di poche dita che la sfiorano ma che è stata tirata su e salvata, ha creato un simbolo di svolta.
In una realtà che così com’era avrebbe distrutto anche l’ultimo briciolo di identità di Rumplestilskin, la solitudine è stata abbracciata da qualcosa di più grande, da qualcosa che ha portato a riscrivere una sotto trama fino ad allora impensabile.
Una tazzina non può diventare una goccia d’acqua. Nelle notti grigie di una Londra desolata il terreno restituisce la pioggia come acqua in superficie. Un contenitore reale, concreto, non può diventare ciò che contiene, non può divenire liquido, nonostante riesca a darne abitazione a una notevole quantità.
Di pregevole fattura e delicatissima consistenza il mondo di Vanessa Ives è tutto lì. Per quanta fede e quanta oscurità possa contenere quella tazzina da tè, c’è un limite oltre il quale la vita comincia a uscire fuori dai bordi, a invaderne le discese decorate per arrestarsi solo una volta incontrato il piattino posto sotto di lei.
Troppo piena, la tazzina viene gettata a terra, come se, una volta scoperto di non poter fare di lei ciò che si vuole, quella vita non servisse più a nulla. Ma una tazzina non può diventare una goccia d’acqua. Non può sopravvivere alla caduta, ed è così che smette di essere anche un contenitore concreto. Non è più nulla, se non il ricordo di ciò che era, ma non basta. Sono i piccoli frammenti rimasti intatti a darle ancora un’identità, che però non riusciranno a ricomporsi e che non potranno contenere più nulla da soli.