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Parli di una sigla televisiva e pensi subito a Friends. Una connessione immediata, istintiva. Persino inconscia. Inevitabile, se si evoca il corpo emotivo di una canzone che ha scritto una pagina importante della storia delle serie tv. Non una sigla qualunque: la sigla, per eccellenza. Quella che più di ogni altra si è fissata nell’immaginario comune, andando ben oltre i confini della serie stessa.
Dici “I’ll Be There for You” e viene spontaneo canticchiarla per rivivere le atmosfere iconiche della sit-com. Succede a chi la serie l’ha effettivamente vista ma anche a chi la conosce a malapena, seppure di riflesso. Un’icona pop da ogni punto di vista, capace di viaggiare nel tempo dal 1994 a oggi per tornare a noi con un fascino immutato. Insomma, è chiaro: le sigle televisive ricoprono un ruolo importante, chiave. Perché quello che abbiamo appena detto a proposito di Friends si potrebbe replicare per numerose altre serie tv, e sarebbe persino superfluo avventurarsi in un elenco.

Le sigle televisive più importanti di sempre, d’altronde, sono note e classificabili da più punti di vista. Se ne può evocare lo spirito e la creatività, l’atmosfera e persino la vocazione narrativa ed espressiva. La sigla è fondamentale per immergere lo spettatore nel mood della serie, raccontando qualcosa di importante a proposito di essa.
Nonostante ciò, la lunga premessa porta a una considerazione piuttosto mesta: le sigle televisive, infatti, paiono essere in via d’estinzione.
Sono sempre meno frequenti, e quando sono presenti tendono a essere sempre più corte. Sono raccolte talvolta in piccoli frammenti, come succede per esempio per una delle apripista della tendenza nei primi anni Duemila: Lost. Vale lo stesso per Breaking Bad o Better Call Saul, andando più in là nel tempo. Ma sono casi ben contestualizzati, come accadeva sporadicamente anche negli anni Novanta all’interno di un genere che ha caratterizzato le sigle televisive meglio di qualunque altro: le sit-com. Frasier, per esempio, presentava una sigla piuttosto minimal, mentre si chiudeva con un componimento musicale che accompagnava la scena di chiusura della puntata. Scelte stilistiche specifiche, dicevamo. Ora, però, la regola sembra essersi capovolta: l’eccezione, ormai, è rappresentata da chi scommette ancora su una sigla televisiva lunga e articolata.
Cosa sta succedendo? Perché le sigle televisive sono sempre meno frequenti? Elaboriamo una piccola analisi in tal senso.

Non è la prima volta che affrontiamo il tema. Tre anni fa, infatti, Sara Crecco sviluppò un appassionato pezzo con un titolo che diceva tantissimo a proposito dello spirito col quale si approcciò all’argomento: “Ridateci le sigle!”. Lo citeremo più volte, perché la nostra idea non è cambiata: la serialità si è evoluta nelle forme più disparate, ma la sigla non ha smarrito la sua funzione primaria. Scrivevamo: “La sigla, che ci piaccia o no, ha una funzione importantissima. Non è solo una presentazione: la sua estetica evoca lo spirito della produzione stessa“. Una funzione per molti versi storica: “Le intro lunghissime di Twin Peaks, I Soprano o Dexter sono un pezzo di storia imprescindibile che aiutano a mantenere vivo il ricordo di quell’esperienza”.
Ecco, appunto: perché sono ormai ridotte a frammenti di pochi istanti, estese per una decina di secondi quando si ha voglia di esagerare? Perché moltissime altre serie tv, invece, non la inseriscono affatto?
Un ruolo importante è stato giocato, in tal senso, da Netflix. Con un dato chiave, aggiornato al 2022: il 15% degli utenti tende a usare la funzione “skip intro”, ovvero quella che permette di saltare la sigla. Riportiamo un passaggio già citato nell’articolo di Crecco: “Al giorno d’oggi, è difficile immaginare lo streaming senza utilizzare il pulsante “Salta introduzione”. Su Netflix, in una giornata tipo, il pulsante “Salta” viene premuto 136 milioni di volte, facendo risparmiare agli abbonati approssimativamente 195 anni!”.
Citiamo Netflix non a caso: il network ha spinto più di ogni altro sulla limitazione o la totale eliminazione delle sigle televisive. Da una parte è un paradosso, o quasi: sigle come quelle di The Crown o di House of Cards hanno scritto due pagine importanti della sua storia. Dall’altra, tuttavia, è evidente la ricerca di una fruizione immersiva votata al binge watching, modalità allergica alle sigle. Più episodi si guardano più si tende allo “skipping”, specie per tipologie di serie tv in formato miniserie, strutturate con una compattezza che agevola una fruizione continuata.
La sigla diventa, in tal senso, un orpello pressoché superfluo, nonché un costo evitabile che non genera spesso e volentieri degli utili indipendenti.
Perde la sua funzione originaria, legata all’esigenza di introdurre la trama e i personaggi, soprattutto in serie con episodi autoconclusivi. E si perde nella visione lineare, spezzando il flusso di continuità perseguito dai network nell’era dello streaming. Crecco era stata chiarissima anche in tal senso: “Sebbene la tentazione di andare al sodo sia forte, non dovremmo privarcene. La visione di un film e di una serie tv dovrebbe essere un piacere. L’assaggio di una caramella, o l’apertura di un regalo, non ha lo stesso gusto se prima non scartiamo la carta”.
In fondo, è anche una questione psicologica: innumerevoli studi dimostrano che la ripetizione aiuta la memoria e il riconoscimento. Le sigle agivano come un rituale di preparazione mentale: ti aiutavano a entrare nel mood della serie, a separarti dal mondo esterno. Oggi, senza questo momento di transizione, l’esperienza televisiva è più frenetica e meno immersiva.
Ne traiamo, di conseguenza, un’ulteriore considerazione: le serie tv sono sempre più dei prodotti da fast food, fatti per essere usati e consumati rapidamente, e non più un prodotto gourmet che porta con sé una brand identity capace di protrarsi nel tempo.
La scomparsa delle sigle televisive ha indebolito il legame emotivo tra pubblico e serie tv, rendendo alcuni prodotti meno riconoscibili sul lungo periodo. Le serie moderne riusciranno a lasciare lo stesso impatto culturale senza sigle iconiche? Non sono indispensabili, ma erano sicuramente molto utili in tal senso.
Diventano persino un ostacolo, in quest’ottica: specie se fosse lunga più di un minuto, come accadeva spesso e volentieri fino ai primi anni Duemila, toglierebbe spazio al contenuto stesso (in streaming, ma anche sulla tv tradizionale) e alla possibilità di coprire il minutaggio con inserzioni pubblicitarie. Netflix è un esempio e ha funto da catalizzatore del fenomeno, ma potremmo fare le medesime considerazioni per gran parte dei suoi competitor e per i player storici del piccolo schermo.
Un buon esempio in tal senso è l’evoluzione di un’altra sigla televisiva che ha fatto la storia delle serie tv: quella de I Simpson.
Un’intro piuttosto lunga concepita negli anni Ottanta e oggi fuori dal tempo. Il fascino è quello di sempre, ma le esigenze sono cambiate: la sigla è così dinamica e asseconda le esigenze di minutaggio del network ospitante (la Fox), allungandosi o restringendosi volta per volta per coprire l’intera fascia nel modo migliore.

Fin qui, le crude esigenze del mercato contemporaneo, sempre più soggetto ai fenomeni passeggeri e sempre meno ai monumentali riferimenti socioculturali di un tempo. Si parlava di un’estinzione in corso, ma in realtà questa è solo una parte del discorso: per tanti che hanno ormai rinunciato alle sigle televisive, alcuni vanno ancora in controtendenza e persistono nel suo utilizzo. In particolare, chi scommette ancora su una certa autorialità, portando con sé una visione della tv più ancorata alle fortune ormai smarrite della golden age del piccolo schermo: HBO ed Apple Tv+.
Da Scissione a The White Lotus, passando per Succession e Ted Lasso, House of the Dragon, Silo e le decine di esempi possibili in tal senso, i due network lavorano ancora con cura sulle sigle televisive, apportando costanti elementi di novità che le rendono più dinamiche di un tempo, variabili e ancora più connesse allo spirito del racconto presentato, nonché foriere di opportunità significative.
Opportunità anche economiche, talvolta.
Le sigle di The White Lotus, in particolare, hanno dominato la scena negli ultimi anni, divenendo virali su TikTok e finendo per generare introiti grazie alla sua radicata diffusione. Stranger Things, invece, ha rilanciato Running Up That Hill di Kate Bush grazie al suo uso nella serie, dimostrando che la musica associata a una serie può fare la differenza. Oggi come ieri, come dimostrato dalla già citata Friends o da Dawson’s Creek e The O.C., altri esempi funzionali in tal senso. Le case di produzione stanno sottovalutando il valore commerciale delle sigle tv? Sì, per certi versi.
Insomma, è chiaro: da una parte, la loro graduale estinzione ha impoverito l’esperienza televisiva, rendendola più veloce ma meno memorabile. Dall’altra, la fruizione in binge watching ne vanifica la funzione più pratica, pur senza smarrirne lo spirito evocativo e psicologicamente rilevante nella costituzione di un’identità forte sul lungo periodo.
Le sigle televisive non sono più imprescindibili, come dimostra chi ne fa a meno del tutto (The Handmaid’s Tale, per esempio), ma conservano comunque un’importanza significativa che sarebbe bene preservare in qualche modo. Sarà davvero così? È solo una fase oppure il minimalismo più audace porterà all’eliminazione globale nell’arco dei prossimi anni? Staremo a vedere.
Chiudiamo, allora, con una bella considerazione di Alan Williams, disegnatore di titoli di testa interpellato alcuni anni fa sul tema dal magazine The Verge: “Ti siedi, e ci sono ancora i piatti da lavare, tutto lo stress del lavoro, o qualsiasi problema tu possa avere. Ma poi c’è quel momento, un momento si-apre-il-sipario-si-spengono-le-luci che ti ipnotizza per raccontarti una storia. Penso che serva, quel momento. Serve – anche se lo vediamo su uno smartphone, seduti in metropolitana – come preparazione per lasciare da parte le nostre vite e tutti i loro casini. È quello che fanno dei titoli di testa fatti bene. Ti portano via dalla realtà e ti spingono dentro la storia che stai per vedere”.
Siamo davvero pronti a rinunciare a tutto ciò?
Antonio Casu