La notizia è di poche settimane fa: Netflix, nel tentativo di assecondare le abitudini mutate del pubblico, avrebbe dato indicazione agli sceneggiatori di film e serie tv di inserire dei dialoghi didascalici che consentano di seguire la trama anche mentre si sta facendo altro. Più in generale, assecondare così l’abbassamento della soglia di attenzione. Ne deriva la necessità di riprendere in mano le trame con un’esposizione letterale degli eventi chiave di una serie tv o un film, in modo da permettere di non perdere per strada le informazioni fondamentali. In sintesi: “I personaggi devono dire cosa stanno facendo”.
Come abbiamo evidenziato nella news dedicata in cui abbiamo spiegato il meccanismo nel dettaglio, sarebbe scorretto parlare dell’indicazione al futuro: è già presente. Noi, dal canto nostro, abbiamo riportato l’esempio del film Irish Walsh, uscito nel 2024 e foriero di ottimi spunti in tal senso. Altrettanto ha fatto di recente lo youtuber Caleel in un video di analisi della seconda stagione di Squid Game, nel quale ha sottolineato la tendenza sempre più marcata delle serie tv Netflix in tal senso. Al di là delle prospettive e delle opinioni più semplicistiche che più di qualcuno potrebbe trarre dall’annoso tema dell’abbassamento della soglia di attenzione, la questione è interessante. E sta condizionando sempre più il nostro rapporto con l’intrattenimento, nonché con svariati ambiti delle nostre vite in cui i meccanismi dell’intrattenimento rappresentano ormai lo spunto, la necessità e la finalità per mantenere un qualche controllo sulle nostre attività quotidiane.
In questo articolo, però, rimarremo dentro il nostro ambito di pertinenza primario: le serie tv (e i film, di riflesso). Con una domanda: il restringimento della soglia d’attenzione sta cambiando davvero le serie tv? Spoiler: sì. Ma ci sono tanti ma da considerare.
Prima di procedere, rispondiamo a un altro quesito: la nostra soglia di attenzione e di concentrazione è davvero crollata, negli ultimi anni? Sì, secondo uno studio portato avanti negli anni scorsi da Microsoft. E si assesterebbe intorno agli otto secondi circa. La soglia di un pesce rosso, per rendere l’idea. Otto secondi su un contenuto e poi la mente va altrove, spinta dai continui impulsi ai quali la nostra mente è sottoposta nell’era dei social e dei media che ci bombardano con informazioni costanti provenienti da più parti.
Uno scenario che merita una riflessione, per ovvi motivi. Ma questa, in realtà, è solo una parte del racconto: se da un lato tutto ciò è (abbastanza) vero, dall’altra c’è da sottolineare che la nostra mente si stia evolvendo secondo le logiche del multitasking. Facciamo più cose nello stesso momento, per necessità o per diletto. E di conseguenza, ci stiamo “allenando” inconsciamente a un filtraggio continuo di ambiti d’interesse utili o meno utili, interessanti o evitabili. La nostra mente sta scrollando in ogni momento qualunque cosa per dare priorità a quello che serve o che vogliamo, tralasciando rapidamente il resto.
Si può individuare, allora, una fase di transizione che ci sta portando a modellare diversamente i nostri usi e le nostre abitudini, fino ad approdare in un ambito inesplorato.
È un bene? È un male? Approcciarsi al tema in questi termini è sempre un errore. Più utile, invece, concentrare l’attenzione – possibilmente, per più di otto secondi – sulla presa d’atto del fenomeno e sulle sue conseguenze.
Torniamo alle serie tv, allora. Con l’ultima considerazione preliminare: stanno cambiando perché il pubblico è cambiato. E soprattutto perché il pubblico, banalmente, si concentra sulla visione mentre fa altro. Guardiamo più serie tv di prima, ma lo facciamo con una qualità di visione differente. Più bassa, per molti versi. Chi scrive, produce e distribuisce le serie tv non può non tenerlo in considerazione. Lo certifica la nota di Netflix, ma anche alcune altre testimonianze autorevoli in tal senso.
Una delle più interessanti è arrivata qualche tempo fa da David Chase, storico autore de I Soprano. Riportiamo le sue parole, già riprese da noi in un articolo dedicato al presunto “funerale della tv di qualità”. Questo lo stralcio che ci interessa ora: “Siamo sempre più orientati verso il multitasking. Il telefono è solo un sintomo, ma chi può davvero concentrarsi? Tua madre potrebbe essere in fin di vita e tu sei lì accanto al suo letto d’ospedale a rispondere al telefono. Sembriamo confusi e il pubblico non riesce a mantenere la concentrazione, quindi non possiamo creare nulla che abbia troppo senso, richieda attenzione e necessiti che il pubblico si concentri. E a proposito delle piattaforme di streaming? La situazione sta peggiorando. Stiamo tornando dove eravamo. Quindi, è un funerale. Qualcosa sta morendo”.
Sì e no, a dirla tutta. Noi, dal canto nostro, non avevamo chiuso quel pezzo con un’approvazione integrale delle parole di Chase e avevamo immaginato degli scenari molto meno “funerei”.
La questione, però, esiste. E la sottolinea anche John Landgraf, CEO di FX, network che si è caratterizzato negli ultimi anni per un’esponenziale crescita della qualità delle serie tv distribuite.
Ne ha parlato un anno fa circa: “Penso che la nostra capacità di attenzione sia diminuita radicalmente e che la nostra pazienza con le cose più impegnative sia diminuita. Mi preoccupa fortemente”. Detto dal responsabile di un network che nell’ultimo decennio ha portato avanti un percorso che ci ha regalato perle del calibro di Shōgun, The Bear o Atlanta (giusto per dirne tre), fa una certa impressione.
Detto ciò, arriviamo al punto: come stanno cambiando le serie tv per arginare il fenomeno, o comunque per assecondarlo?
La risposta di Netflix è solo la punta dell’iceberg. La complessità narrativa è filtrata da una tendenza allo storytelling che tiene in considerazione la soglia d’attenzione abbassata degli spettatori. Ma ciò non basta: come certificano le evoluzioni delle classifiche di maggior successo anno dopo anno, il pubblico predilige sempre più la complessità che incontra l’immediatezza. Trame dagli impulsi continui, piene di colpi di scena più o meno appariscenti e con pochi tempi morti. Veloci, ma abbastanza lunghe da prestarsi a un binge watching soddisfacente. Come si è detto qualche riga fa: si guardano più serie tv, ma con un’attenzione ridotta rispetto al passato. Si spiega così il successo di un formato che ha caratterizzato significativamente l’ultimo decennio: le miniserie.
La componente dell’intrattenimento è garantita da un ritmo più rapido e vorticoso, a fronte di standard qualitativi comunque superiori rispetto alla serialità televisiva a cui era stato abituato il pubblico fino all’avvento della golden age.
Lo storytelling televisivo si è così adattato ai tempi, mettendo in secondo piano una concezione di racconto più lunga e articolata.
Una serie tv alla Breaking Bad, per intenderci: una serie tv caratterizzata da una prima stagione piuttosto lenta e con finalità legate alla “costruzione” delle basi narrative poi valorizzate nelle annate successive. Oggi come oggi, quella prima stagione avrebbe avuto bisogno di presupposti diversi per funzionare: avrebbe avuto meno tempo per agire, meno spazio per fallire. Se avesse visto la luce oggi, sarebbe andata incontro (con ogni probabilità) a un insuccesso. Insomma, c’è sempre meno spazio per la serialità d’autore. E quando ancora persiste, è confinata spesso e volentieri all’interno delle miniserie. Miniserie che diventano poi serie tv con più stagioni quando ottengono un successo al di sopra delle aspettative: il pubblico è ormai “catturato” dal racconto e ciò concede uno spazio d’azione maggiore per chi scrive e produce.
Generalizzare, ovviamente, è un errore. Le miniserie, tuttavia, centrano il punto perfettamente: rappresentano il compromesso ideale per combinare una buona qualità, un’ottima complessità, un ritmo interessante e l’immediatezza legata alla necessità di tenere alta la soglia d’attenzione del pubblico.
Questo, in fondo, è lo stesso motivo per cui le serie tv non soppianteranno mai i film: essi rispondono a loro volta a queste esigenze. Le eccezioni, chiaramente, ci sono e ci saranno sempre: il pubblico ha sviluppato gusti più raffinati e sa riconoscere con più semplicità un prodotto ben fatto che merita la sua attenzione, ma è più difficile intercettarlo e tenerlo dentro il racconto. Siamo più esigenti, e siamo soprattutto più impazienti: vogliamo la qualità, ma la vogliamo senza “sacrificare” il nostro tempo. E la vogliamo, possibilmente, per usarla spesso e volentieri come mero “sottofondo”. Vogliamo la qualità, ma vogliamo godercela mentre abbiamo il telefono in mano o stiamo facendo chissà cosa. Tutto ciò complica non poco il lavoro degli sceneggiatori.
In definitiva, è evidente come si stiano evolvendo le serie tv in relazione all’abbassamento della soglia d’attenzione.
Lo spunto di Netflix offre una dimensione più “audiovisiva” al racconto, assimilandola a quella degli audiolibri (genere che sta vivendo non a caso una rinnovata gioventù), o a quella dei podcast, altro formato che sta caratterizzando fortemente il nostro tempo. Il pubblico, parallelamente, chiede qualità con ritmo, invoca l’allergia ai filler e ai processi di sviluppo di un racconto che necessitano di uno spazio e di una soglia di pazienza che ormai non si mette più a disposizione degli autori più validi.
Vale per le serie tv, ma vale in ogni ambito: vale per chi realizza un brano musicale e deve sottostare a tempistiche, modalità di scrittura e melodie più riconoscibili e familiari, elementi utili per semplificare una fruizione “passiva” del prodotto. Vale per chi scrive un articolo giornalistico o un pezzo come quello che state leggendo (anche se una percentuale bassa di chi ha avviato la lettura arriverà fin qui), e vale per esempio anche per un insegnante che si trova costretto a puntare su logiche connesse all’intrattenimento per creare una sfera emotiva, d’interesse e d’interazione efficace con gli studenti.
Insomma, vale in ogni ambito: l’attenzione dello spettatore si conquista momento per momento, senza mai darla per scontata.
Può essere un problema. A seconda delle prospettive, però, può anche essere un’opportunità. Quello che conta è prendere atto della questione e affrontarla con lucidità, come sta dimostrando Netflix con le sue particolari strategie. Strategie che mirano a un’evoluzione della scrittura di alcune scene che risulteranno fastidiosamente ridondanti per chi è concentrato sulla visione, ma saranno utili per tutti gli altri. E che centrano, in chiusura, la volontà di andare incontro a un compromesso altrettanto importante: essere generalisti, ma non esserlo troppo. Realizzare prodotti buoni per tutti, ma con un gusto diverso rispetto al passato.
Il “cheeseburger gourmet” di cui abbiamo parlato spesso e volentieri all’interno dei nostri approfondimenti è la chiave di volta definitiva di questo periodo: il segno di una golden age ormai conclusa e di una nuova fase che è già presente. Piaccia non piaccia, è questo il mondo in cui stiamo vivendo: teniamolo a mente, finché potremo.
Antonio Casu