Il denaro è un’allucinazione collettiva. È la prima frase, di Franco Battiato, 23 coppie di cromosomi (Dieci Stratagemmi) giunta in mente dopo il primo episodio di Squid Game.
Parte da Squid Game questa rassegna di 5 serie tv che hanno spalancato le porte della mia percezione. Modificatori naturali della coscienza che temporaneamente hanno riempito la smania di trascendere se stessi.
Non solo Franco Battiato, Aldous Huxley e i Doors, ma anche Squid Game, The Handmaid’s Tale, L’Amica Geniale, sono state esperienze percettive e conoscitive via via sempre più intense. Da più punti di vista: misure e collocazioni che hanno assunto nel mio spazio quotidiano; sensazioni, sentimenti, intuiti e fantasie stimolanti per la mente.
1. Squid Game: un’escalation terrificante dentro un’illusione ottica come quadri di Escher.
Lo credo bene che Hwang Dong-hyuk, come ha raccontato al Koeran Times, abbia impiegato più di 10 anni nel costruire questo geometrico, perverso mondo a colori, candy crush rosa pastello pronte a ucciderti.
Non è solo la distopia della realtà che ha alterato la mia percezione ma più elementi insieme, inclusi certamente l’hipe che ha circondato la serie e le conversazioni con gli amici che, a un certo punto, svolgevamo in fonetica coreana. Tale era la presa sonora sulla coscienza.
Il regista ha dovuto aspettare 10 anni prima che una trama “tanto assurda e sperimentale” e vicende così spietate trovassero spazio nel pubblico e nella società. Considerazioni, queste, che fanno riflettere e rendono l’esperienza di Squid Game ancora più agghiacciante. Si percepisce l’eco di film storici come The Most Dangerous Game (1932, di Irving Pichel, Ernest B. Schoedsack) dove per gioco il Conte si dilettava in un’eccitante caccia all’uomo, per fare delle teste i suoi trofei. Si vedono elementi di Parasite, con quell’abilità coreana, di mettere insieme lusso e sporcizia, umorismo e morte, tecnologia e povertà metropolitane.
Il pubblico nel 2021 era quindi pronto per tanta logica, spietata crudeltà. Per un racconto mortale dove la disperazione è la cifra della nuova lotta di classe e l’allucinazione del denaro porta a uccidere per un uovo sodo. Sin dalle prime scene con il gioco Un Due Tre Stella, che ha ormai alterato anche l’immaginario della nostra infanzia e la Bambola gigante che canta per poi sterminare… Fino all’angosciante ponte di vetro, mentre gli oligarchi capitalisti occidentali si divertono a guardare, anche con certa noia sprezzante, lo spettacolo di questi umani rifiuti del mercato globale costretti a uccidersi.
È questione di denaro, lo capiamo dalle backstories che portano i partecipanti ad accettare la card color oro e a svegliarsi in un dormitorio prigione con un enorme salvadanaio che si riempie, grazie al sangue versato nelle sfide, sulle loro teste (per approfondire, qui la nostra recensione). Sono gli stati di necessità e le aberranti condizioni marginali che portano a scene come “leccare i biscotti”, uccidere il tuo partner e fregare il tuo amico pur di sopravvivere, che hanno alterato la mia percezione. Insieme ai colori dissonanti, puliti, definiti come in un videogame e prospettici come gli artifici del trompe-l’oeil. A cosa serve sopravvivere e ricevere sul conto tutti quei milioni per poi tornare a casa e trovare tua mamma morta?
Squid Game disintegra, disunisce sotto il peso scioccante del materialismo criminale e delle disuguaglianze.
2. L’amica geniale
Guardami finché non mi addormento. Guardami sempre, anche quando te ne vai da Napoli.
Di solito si dice che i libri sono più belli dei film, e in generale degli adattamenti. Si consiglia sempre “leggi prima il libro”. Per me con L’Amica Geniale è stato il contrario o comunque l’atto di lettura e visione si è sovrapposto. È stata così forte l’esperienza della serie sin dalla prima stagione – scritta dalla stessa Elena Ferrante e diretta da Saverio Costanzo, prodotta da Hbo, Rai Fiction e Timvision – che, mentre proseguivo con la seconda, ho iniziato la lettura del primo volume. E così via fino alla terza stagione, voracemente, in parallelo ai due volumi “Storia del nuovo cognome”, “Storia di chi fugge e chi resta”.
Un’immersione totale dentro Napoli, il Rione, il linguaggio e la diversità diastratica del parlato napoletano; nella storia sorprendente di una rara amicizia femminile, tra Elena (Lenù) e Lila, due bambine agli antipodi dal punto di vista caratteriale, che crescono insieme, si legano e si fondono, si sostengono, lottano, si allontanano e si riavvicinano. Storia che trova una suggestiva, aderente trasposizione televisiva della prosa e delle pagine travolgenti di Elena Ferrante.
Sullo sfondo di questa poetica, drammatica e a tratti felice, biografia affettiva, scorre la storia dell’Italia, dagli anni ’50 al presente. Il dopoguerra, la povertà, la questione meridionale e i divari culturali tra Nord e Sud, il boom economico e il ’68, l’emancipazione femminile, l’emigrazione dei giovani, da Napoli a Milano, di coloro che ce la fanno.
Lasciarsi alle spalle la propria terra, staccarsi dalle radici, per cercare un avvenire migliore.
Per non perdere in realtà mai, quelle radici, anzi tornare. Come rifugio o come atto masochistico. Rifiuti e ritorni. Cultura popolare e cultura alta. Dialetto e italiano. Famiglie analfabete e riscatto sociale attraverso lo studio. Intelligenze emotive e intuitive, come quella straordinaria di Lila. La rappresentazione creativa del talento puro.
Senza approfondire la trama che trovate qui, l’Amica Geniale ha amplificato il mio modo di percepire le cose. Tra identificazione nei vissuti delle due ragazze e scissione, tra conoscenza dello scenario antropologico raccontato e distacco. Quel distacco rappresentato dalla voce narrante di Elena che vuole studiare, leggere, diventare sempre più colta e realizzarsi per portarsi via dal Rione, dalla violenza aberrante, dalla sottocultura.
Per molto tempo rapita, mi sono immedesimata nelle loro esperienze, molto in quella della scrittura, magistralmente eretta a motivo centrale dalla Ferrante. E in tutti i personaggi: i clan e le famiglie, le madri, i padri, le sorelle e i fidanzati violenti, la bellissima fotografia che regala le immagini e i volti da consolidare nella mente e rievocare durante la lettura (ecco perché suggerisco un’esperienza congiunta). Per diverso tempo, la rabbia istintiva in nome della giustizia sociale incarnata da Lila, l’ostilità verso la borghesia (oggi diremmo i radical chic) falsamente erudita e ipocrita mi ha pervaso così come le lotte sindacali, per la sicurezza e i diritti sul lavoro.
Tenerezza e rabbia. Assoluta, totale invasione della “smarginatura”, quando si scrive per sbordare, quando i contorni si deformano e tutta la realtà sembra assurda, inaccettabile, sconnessa.
Dopo Squid Game e L’Amica Geniale, un altro affresco del mondo destabilizzante.
3. The Handmaid’s Tale
Da Squid Game ritorna l’universo distopico, dalla Ferrante i libri, in questo caso il best seller “Il Racconto dell’Ancella” di Margaret Atwood, del 1985.
Quando ho letto il libro speravo vivamente in una Serie Tv che ne potesse inscenare la potenza. Per magia, è arrivata The Handmaid’s Tale, con Elizabeth Moss nei panni di June. Promettente inizio. È complesso raccontare l’ansietà cronica che si vive durante la visione della serie, il senso claustrofobico che si respira in certe scene negli interni bui, lugubri di case ricche che abitano il sistema totalitario formatosi in un futuro in cui, con l’inquinamento delle radiazioni atomiche, le donne sono private di uno dei loro doni più grandi: la fertilità.
Gerarchie rappresentate dai colori degli abiti, rossi, verdi, marroni, neri, percezioni segnate dalle forme che i corpi collettivi assumono nelle scene riprese dall’alto: Comandanti, Mogli sterili e Ancelle fertili costrette a servire le famiglie del potere, mettendo a disposizione il proprio utero, il proprio corpo, dando figli. Rigenerazioni punitive inflitte dalle Zie. Si continua a guardare la serie nella speranza che qualcosa di positivo succeda. E invece no, puntata dopo puntata, il senso di coercizione diventa invasivo, l’angoscia per la perdita di libertà. Impossibile fuggire, impossibile anche vivere. A Gilead.
Il dolore di veder sparire il nome proprio. Prima June, poi Difred.
Misoginia, regime, pregiudizi, ingiustizia ispirano un costante istinto di protesta. La percezione viene alterata quando si affronta la lucida lettura delle pagine di Artwood.
Mi sento secca e bianca, dura, granulosa come un piatto di riso asciutto, come la neve. È una sensazione di morte, di abbandono. Sono come una stanza dove un tempo accadevano delle cose e adesso non accade nulla, tranne il polline delle gramigne che crescono là, fuori dalla finestra, e che viene soffiato all’interno come polvere sul pavimento.
La serie potenzia queste percezioni di predominante disperazione abbandonica. Aspettando, giorno dopo giorno, che il mondo se ne accorga, che inizi la Resistenza.
4. The Blacklist. Amare Raymond Reddington
“My name is Raymond Reddington. I’m a criminal”. Quando ho iniziato la serie, attualmente alla nona stagione, cercavo solo un piacere di lunga narrazione. Poi dalle prime scene – vedendo questa figura affascinante, elegante, con uno charme inarrivabile – e scoprendo l’attacco della storia, è stato una calamita. Un binge watching progressivo in grado di superare anche certa linearità della trama, la verticalità degli episodi e diversi stop and go narrativi.
C’è tutto un mistero insondabile dietro l’azione iniziale in cui Raymond “Red” Reddington, il criminale più ricercato al mondo, si consegna volontariamente all’FBI decidendo di collaborare con una sola specifica unità e con una figura in particolare, Elizabeth Kean. Figura che, a me come a moltissimi fan della serie, risulta tra le più insopportabili e odiose delle Serie Tv, di diritto da aggiungere alla nostra lista.
The Blacklist ha una trama avvincente, ricca di character development e colpi di scena e meriterebbe uno spazio di approfondimento tutto suo. Anche James Spader, che interpreta il brillante, raffinato, irresistibile Raymond Reddington meriterebbe un altro ampio spazio di analisi. La sua self confidence e l’abilità oratoria – da gustare unicamente in lingua originale per la piacevolezza della voce di Spader e della recitazione formidabile – sono travolgenti. Il modo in cui interpreta e vive il mondo con coraggio e il rigore e i codici con cui fa il criminale, ma anche il business man, il collaboratore dell’FBI, il padre, l’amico, sono compenetranti. Durante la visione di TUTTE le prime 8 stagioni, Raymond Reddington mi ha ispirato. Vedevo il mondo con i suoi occhi, ricercavo la sua ironia, l’eloquio rapido e incisivo, la sicurezza nell’affrontare difficoltà, ansie, pericoli, sfide della vita, anche le più ordinarie. Dopo la serie, infatuata da James Spader e dal suo fascino elegante, ho divorato tutta la filmografia, anche quella di medio, talvolta basso, livello. I cappelli e gli outfit che veste in The Blacklist sono la cifra di un’immagine così carismatica da travolgerti.
5. Cobra Kay
Strike first, Strike Hard, No Mercy. L’insegna del Doho, un mantra.
Partiti da Squid Game, concludiamo la rassegna con una serie che per molti millennial ha rappresentato un dono. Un dono che proviene dal passato, dalle serate estive trascorse a guardare Karate Kid.
Il 2022 è iniziato con la quarta stagione di Cobra Kai. Per chi, come me, aveva il Covid, è stato un inizio energizzante. Sono tra coloro che non aveva visto le precedenti stagioni dunque, anche in questo caso, ho fatto una full immersion nel micro-cosmo di All-Valley. Se c’è un aspetto che caratterizza Cobra Kai e lo rende immersivo e adorabile è che tutto – drammi, minacce, rivalità, rivincite – ruota attorno al Torneo di All Valley. In questo senso, insieme alle musiche e al ritorno degli attori che avevano interpretato gli stessi ruoli nei film originali (ad eccezione del Sensei Miyagi) è un coinvolgente ritorno al passato. Ma anche un ritorno al futuro dato che la trama si evolve, i protagonisti sono giovani nati nei 2000, e il binomio Daniel Lo Russo – Johnny Lawrence è molto più sfaccettato della dicotomia basica “buono – cattivo” di Karate Kid.
È proprio Johnny Lawrence – con la sua voglia di rialzarsi dai disastri della vita, di rinascere, di guidare, a volte in modo poco educativo ma sicuramente efficace, i suoi allievi – il personaggio che più potenzia la visione. Le arti marziali, ma soprattutto il sottotesto, il vero messaggio della serie – imparare a essere combattivi, sviluppare forza interiore e fiducia in se stessi – è l’incentivo a guardarla e a trarne energia.
Non è mancato nella mia realtà, in occasione di dibattiti e momenti pubblici sul tema del bullismo, sempre più all’ordine del giorno, citare Cobra Kai come reference nuova, fresca, senza retorica, che intercetta efficacemente e con emozione l’argomento. Che bello trovare una serie che, nell’ambito dei teen drama, incentiva la speranza e parla a tutti, combatte le insicurezze e coinvolge. Catturati dalle sfide tra Daniel e Johnny, tra i Dojo Cobra Kai e Miyagi-Do. Due scuole di pensiero e di combattimento, stesso messaggio di lotta, rispetto e vittoria di squadra.