Émile Durkheim, uno dei padri fondatori della sociologia, sostiene che per capire una società sia necessario guardare alle sue rappresentazioni collettive, al modo in cui i membri della stessa danno insieme un senso al mondo. La società si costituisce a partire dall’idea che essa si forma di sé, dai simboli condivisi da coloro che la compongono, un bagaglio che si manifesta sotto forma di rappresentazioni collettive, condivise da tutto il gruppo e la cui esistenza trascende quella dei singoli individui. Secondo Durkheim, l’ordine sociale stesso è allora sostenuto anche dalla presenza e dall’esecuzione di rituali, fatti sociali nei quali si manifesta la coscienza collettiva di una società, momenti in cui la società stessa non solo prende coscienza di sé, ma raggiunge anche il grado di intensità necessario perché gli individui che la compongono si sentano trasformati da singoli a parte di un’esistenza sovra-umana, che trascende il quotidiano e l’individualità. Se Durkheim, che scriveva a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, individuava nella religione e nei rituali religiosi i momenti in cui la società riconosceva ed esaltava se stessa, un sociologo contemporaneo come Pierre Bourdieu ha sviluppato ulteriormente il concetto di rituale perché si adattasse al giorno d’oggi, tanto che nella sua concezione di rituale potremmo facilmente riconoscere persino la visione collettiva e simultanea della quarta stagione di Stranger Things.
In un Occidente in cui è sempre più difficile parlare una società unita, e in cui si sono sviluppati sottomondi simbolici separati e autonomi, l’idea di rito si è evoluta, e i momenti in cui la società è ancora in grado di riconoscere se stessa e la propria coscienza collettiva si sono rarefatti, senza però scomparire del tutto. Tra i principali rituali contemporanei che persistono e permettono il consolidamento di una coscienza collettiva vi sono quelli del tempo libero, le cui manifestazioni principali sono lo sport e la cultura popolare. È in questa prospettiva che possiamo affermare che, negli ultimi trent’anni, le serie tv hanno avuto un ruolo fondamentale nel mantenere unita la società occidentale, a partire da Twin Peaks e andando a finire al giorno d’oggi, con la visione immediata e forsennata della quarta stagione di Stranger Things.
Infatti, nel momento in cui nel 1990 abbiamo iniziato a chiederci “Chi ha ucciso Laura Palmer?“, qualcosa è cambiato per sempre nel nostro approccio al mondo della serialità in quanto società occidentale, perché quello che era sempre stato solo svago è diventato improvvisamente un momento di riconoscimento collettivo, di condivisione ritualistica. E laddove Twin Peaks ha dato il via a una rivoluzione culturale, alcune delle serie tv andate in onda nei successivi 25 anni hanno contribuito a espanderne i confini, tanto che la visione di determinati prodotti è diventata solo una parte dell’esperienza stessa legata alla loro fruizione.
Pensiamo per esempio a Lost, la serie che più di ogni altra ha cambiato il modo di guardare la televisione. Andata in onda tra il 2004 e il 2010, negli anni in cui la diffusione sempre più capillare di Internet ha trasformato la nostra società a una velocità quasi senza precedenti, la serie ABC ha contribuito in maniera netta alla creazione del concetto di fandom, qualcosa che potremmo senza grossi problemi riconoscere come una declinazione contemporanea e frammentaria dell’idea di coscienza collettiva introdotta da Durkheim. Come vi abbiamo raccontato nel dettaglio in questo articolo, Lost, con i suoi misteri e il suo essere continuamente al centro di discussioni tra i vari fan, ha costruito intorno a se una comunità di spettatori per i quali la visione della serie non era che uno dei momenti legati alla fruizione della stessa, che continuava online, dove l’interazione con gli altri utenti permetteva di trascendere il confine di singolo appassionato e riconoscersi invece come parte di una comunità.
Ciò che è iniziato con Lost è proseguito negli anni con alcune serie tv che, per ragioni differenti, si sono imposte come elementi fondamentali della cultura occidentale, portando in scena momenti che sono diventati spartiacque nello sviluppo della coscienza collettiva contemporanea. Pensiamo per esempio all’impatto che ha avuto la morte di Marissa Cooper in The O.C., una serie che se fosse andata in onda al giorno d’oggi probabilmente non sarebbe andata oltre la prima stagione. Quando nel 2006 un incidente ha messo fine alla vita dell’adolescente più problematica di tutta la California, un’intera generazione ha subito un trauma, perché ha vissuto quella morte come la fine di un’innocenza infantile. Se ancora oggi, a distanza di oltre 15 anni, ancora parliamo di quel momento, è anche perché quando la serie è andata in onda per la prima volta l’abbiamo vissuta come un’esperienza collettiva, e quel preciso lutto è stato un piccolo trauma condiviso, che legherà per sempre tutti gli spettatori della serie.
Eppure, con il procedere degli anni, la frammentazione e iper-produzione dell’offerta seriale ha comportato un’inversione di tendenza rispetto a quanto osservato a partire dai tempi di Twin Peaks. Certo, non si può negare che vi siano stati in tempi recenti delle eccezioni a questa generale tendenza alla diversificazione nella fruizione di serie tv, come per esempio Game of Thrones e Stranger Things. Nel caso del fantasy HBO, parliamo di un prodotto che è stato capace di attirare le attenzione di milioni di spettatori e trasformarsi in un fenomeno culturale persino superiore a Lost e Twin Peaks, diventando parte di una discussione continua e incessante tra spettatori di tutto il mondo, che nell’esperienza rappresentata da Game of Thrones hanno vissuto una collettività sociale che prima ignoravano. Momenti come le Nozze Rosse o la (temporanea) morte di Jon Snow alla fine della quinta stagione hanno cementificato l’esistenza di una coscienza collettiva che si è poi rafforzata nelle discussioni intorno agli stessi.
Nell’era delle piattaforme streaming, in cui l’offerta seriale non solo è tale da rendere il panorama saturo, ma è anche estremamente frammentata, il ruolo della serialità televisiva come momento ritualistico di riconoscimento della collettività sembra ormai superato, se non fosse che proprio nell’ultimo mese abbiamo assistito a un’inversione di tendenza che non possiamo ignorare. L’uscita della quarta stagione di Stranger Things, attesa da quasi tre anni e accompagnata da aspettative altissime, è stata vissuta dal pubblico delle serie tv come un momento spartiacque, una rinascita di quella idea di serie tv come fatto sociale che sembrava essere ormai tramontata. Tra il terrore degli spoiler e quello ancora maggiore di rimanere esclusi dalle onnipresenti discussioni a riguardo sui social media e nella vita reale (ossia, per un caso bello e buono di FOMO), l’arrivo del quarto capitolo di Stranger Things sembra aver riportato la società occidentale ai tempi dei forum e delle community, un’inversione di tendenza netta rispetto a quanto osservato negli ultimi anni, in cui il micro-targeting operato dagli algoritmi delle piattaforme sembrava aver minato le fondamenta stessa del rituale seriale.
Ecco allora che, davanti alle dimensioni assunte dal fenomeno Stranger Things, ci sorge spontanea una domanda: non sarebbe meglio se ci fossero meno serie tv, ma di cui parlare con tutti?
Il modello Netflix – che paradossalmente è anche la piattaforma su cui trova spazio la serie creata dai fratelli Duffer – ha portato allo sviluppo di un numero spropositato di produzioni, indirizzate intelligentemente a segmenti precisi e ben delimitati di pubblico, spesso però a spese non soltanto della qualità, ma anche dell’esperienza di fruizione dell’opera stessa. Infatti, guardare serie tv è diventata progressivamente un’abitudine solitaria, qualcosa che alla volte può essere un vantaggio per il prodotto visionato, ma che tuttavia crediamo rappresenti una lacuna rispetto all’esperienza generale di guardare una serie. Condividere opinioni e riconoscersi nell’altro è infatti non soltanto la base di ogni società, ma permette anche allo spettatore di sentirsi gratificato, di allargare i propri orizzonti e le proprie conoscenze. L’esperienza di visione collettiva è allora un momento fondamentale per il pubblico, e si distingue nettamente da quella solitaria che deriva dall’iper-produzione di serie che stiamo vivendo al giorno d’oggi. Se è vero che le due pratiche possono coesistere, speriamo che questa convivenza prosegua ancora a lungo, senza perdersi in un mondo in cui ogni giorno vengono rilasciate decine di serie.