La nostra storia con lo streaming era iniziata così:
E adesso sta andando a finire in questo modo:
Cosa è successo? Come si correlano due notizie del genere? Spieghiamoci meglio. Il 30 settembre di otto anni fa, venne pubblicato un articolo in cui presentava sulle neonate pagine di Hall of Series un servizio di streaming a pagamento che stava per affacciarsi per la prima volta in Italia: il suo nome, manco a dirlo, era ed è Netflix. Non fu necessaria grande lungimiranza per comprendere da subito che avrebbe rivoluzionato il nostro modo di approcciarci alla visione di film e serie tv, e che avrebbe di conseguenza conquistato ampie fette di mercato portando il sistema televisivo a riplasmarsi sotto una nuova forma. Migliaia di contenuti per una cifra esigua, sostenibile quasi da chiunque: tre euro al mese di base minima, vista la possibilità di condividere l’account con più utenti. Una cifra spendibile anche da uno studente fuori sede squattrinato con la voglia di guardarsi qualcosa a fine giornata, per intenderci. E che rispondeva a una necessità collettiva, attraverso una dinamica fin lì abituale solo in altri ambiti: la logica dell’all you can eat, per tutte le tasche.
Otto anni più tardi, è arrivata la cancellazione di How I Met Your Father dopo due sole stagioni. Una cancellazione repentina, immeritata e persino ingiustificata se rapportata ai paradigmi attraverso cui avevamo preventivato finora i possibili rinnovi delle varie serie tv: al di là dello scetticismo iniziale con cui era stato accompagnato l’avvento dello spin-off di How I Met Your Mother, la serie aveva conquistato una fetta importante di pubblico con numeri in costante ascesa, un gradimento complessivo a sua volta in crescita – soprattutto nel corso della seconda metà della seconda stagione – e prospettive che parevano essere rosee. Hulu, network distributore di How I Met Your Father, ha però ritenuto inopportuno portarla avanti e ha optato per la cancellazione. Cosa ci dice tutto ciò? Il tema non è la serie in sé né il suo triste addio, bensì quel che testimonia in questo specifico momento storico: il sistema dello streaming, cresciuto con una rapidità che a posteriori appare esser stata insostenibile per gran parte dei principali player in gioco, sta implodendo. E corre ai ripari con soluzioni drastiche che rispondono alle esigenze del brevissimo periodo.
In sostanza, la cancellazione di How I Met Your Father, così come quelle di The Great – decretata dalla stessa Hulu pochi giorni prima – di 1899, nostro caso d’analisi in un approfondimento dedicato pochi mesi fa alle prospettive presenti e future di Netflix, o dell’acclamatissima Winning Time da parte dell’HBO, rappresentano la punta di un iceberg che incombe negli oceani tempestosi dello streaming. Un iceberg che incarna la fine delle spese pazze per migliaia di film e serie tv dalla resa economica globale a dir poco discontinua. E che si connette da vicino allo sciopero di sceneggiatori e attori di Hollywood, protagonisti di una battaglia di campo destinata a protrarsi ancora per molto tempo. Facciamo esempi legati a network diversi non a caso: questa è una crisi in cui vengono coinvolti, chi più chi meno, tutti i principali player impegnati nella battaglia per il dominio del mondo dello streaming. Le regole del gioco dovranno cambiare per resistere, reinventarsi e riplasmarsi in una forma più sostenibile per tutti.
Per questo, non parliamo del caso specifico di How I Met Your Father in relazione al caso specifico di Hulu, coinvolta in questi mesi da una profonda spending review operata da Disney, ma nel contesto complessivo di un’evoluzione dello streaming che sta affrontando una fondamentale fase di transizione.
Se pensate che How I Met Your Father possa esser salvata da qualcuno altro e ripresentarsi prossimamente al pubblico da un’altra parte, mettetevi il cuore in pace: con ogni probabilità non accadrà. Perché non si tratta di una scelta legata a un errore di visione di Disney, bensì alla necessità vincolante di rivedere come lo streaming possa proporsi e vendersi al pubblico. E così accadrà per decine d’altri titoli nei prossimi mesi: se da un lato le cancellazioni che arriveranno non dovranno più stupirci se coglieremo il senso dei nuovi paradigmi adottati, dall’altra è già in atto da mesi un ripensamento dei palinsesti che troveremo nei prossimi anni, con meno titoli e spese più oculate. Ma come si è arrivati a tutto ciò? Com’è possibile che a una rapidissima ascesa catalizzata (anche) dalla pandemia – un’ascesa che ha portato pressoché chiunque negli ultimi anni ad abbonarsi a uno o più servizi di streaming – stia seguendo un arretramento del genere? La risposta è complessa e l’articolo intende concentrarsi più sulle conseguenze del fenomeno che sulle cause, ma vi rimandiamo a un articolo di alcuni mesi fa del New York Times che spiega perfettamente cosa stia succedendo in tal senso.
Parliamo allora di quello che con ogni probabilità accadrà nei prossimi anni, con una sintesi ideale: dopo aver vissuto una fase in cui la rivoluzione sembrava essere totale, i media dello streaming tenteranno di assestarsi e crescere attraverso un ritorno al futuro in cui assomiglieranno sempre più ai media tradizionali.
La prima conseguenza è sotto gli occhi di tutti: i costi per i consumatori aumenteranno e non saranno più condivisibili con altri utenti. Verranno ammortizzati in parte dall’incentivazione di pacchetti meno onerosi che includono della pubblicità: Netflix ha già attuato anche in Italia le nuove politiche e i primi risultati sono stati per loro più che positivi, mentre altri la seguiranno a ruota nei prossimi mesi. La seconda è già stata esposta nel corso del pezzo: si ridurrà il numero di serie tv e film prodotti. Ci sarà una crescita esponenziale di cancellazioni delle produzioni meno remunerative; i nuovi progetti, invece, verranno approvati con molta più oculatezza secondo parametri più concreti, evitando la dispersione di risorse che abbiamo visto negli ultimi anni. Anche con un sorprendente capovolgimento delle prospettive tra cinema e serialità: mentre negli ultimi vent’anni sembrava esser diventato più sicuro avventurarsi nella produzione di una serie tv e non di un film, ora sta succedendo il contrario. Puntare sul cinema in streaming, oggi, sembra essere una scelta economica più solida ed è per questo auspicata dai dirigenti dei network più importanti.
Basta così? Affatto. Cambieranno le serie tv, e il dna che aveva definito le linee guida della golden age muterà a fondo. Meno serie, si diceva: ma quali serie? Meno serie d’alta qualità dai costi proibitivi, più utili all’appagamento dei critici che alla conquista di un pubblico trasversale (vedi 1899), più prodotti destinati a un’orizzontalità associabile a quella perseguita dalla tv generalista (vedi Bridgerton): non è un caso, d’altronde, che da un anno a questa parte la vicepresidente per le produzioni italiane di Netflix sia l’ex direttrice di Rai Fiction, Eleonora Andreatta. Per dirla attraverso le definizioni riportate dal The New Yorker per esporre le strategie aziendali dall’attuale “global head of television” di Netflix, Bela Bajaria, il gourmet viene soppiantato dal fast food. E quando va davvero bene e si riescono a combinare almeno in parte le virtù dei due mondi, si avrà a che fare con un cheeseburger gourmet: un prodotto d’autore, per tutti. Con una modalità di rilascio che smentisce la rivoluzione che Netflix aveva voluto più di chiunque altro e che essa stessa sembra voleva trasformare per i titoli seriali più importanti: basta rilasci in blocco, si torna al settimanale. Un settimanale che tutti gli altri servizi di streaming non hanno mai abbandonato per gran parte delle produzioni originali, se non attraverso proposte ibride.
Riassumiamo, allora: nei prossimi anni avremo meno serie a un prezzo più alto, dal budget inferiore in gran parte dei casi e costosissime solo in caso di resa economica certa. Più film “da cassetta”, meno produzioni d’autore. Rilasci settimanali e non più in blocco. La pubblicità. Più qualità per chi paga di più e più prodotti generalisti per ricercare la massima orizzontalità possibile, dall’espertone di cinema alla casalinga di Voghera. Risultato? Un sostanziale ritorno al passato: questa è in tutto e per tutto un’evoluzione dell’on demand che fronteggia la crisi economica attraverso le ricette della vecchia televisione, quella che pensavamo di aver ormai messo in soffitta per sempre. E che porterà, in ultima analisi, a un’ulteriore migrazione del pubblico da un nuovo media all’altro: se da un lato si pagherà più di qualche anno fa per avere meno, sia su un piano numerico che su un piano qualitativo, dall’altro chi non vorrà pagare e riterrà iniquo il prodotto offerto rispetto alla spesa richiesta si rifugerà su Twitch, Youtube o chissà dove per ritrovare variegate forme d’intrattenimento per un costo nullo. Sarà appagante? Forse sì, forse no. Ma lo sarà sicuramente meno di quanto lo sia stato negli ultimi dieci anni: una volta che ci si abitua ad avere tutto per pochi euro, avere qualcosa per più euro non potrà essere in alcun modo soddisfacente. Ma dovremo farci il callo: la golden age dello streaming è ormai alle spalle. E Icaro, per l’ennesima volta, s’è bruciato le ali.
Antonio Casu