Negli ultimi tempi sembra stia prendendo sempre più piede l’abitudine di accostare diversi prodotti, che siano serie tv o film, appartenenti allo stesso genere. Questa voglia di paragonare tra loro show simili per caratteristiche o scrittura è sicuramente funzionale a una discussione interessante (ed è anche un lavoro che lasciamo con molto piacere ai critici): diventa però sterile e senza alcun fondamento quando finisce per minare il senso generale che i prodotti in questione vogliono comunicarci. I confronti, soprattutto tra gli spin-off, sono inevitabili, questo è vero. Viene però da chiedersi quanto abbia senso continuare a mettere sullo stesso piano serie tv che hanno molto meno in comune di quanto si pensi e che anzi, dovrebbero proprio essere affrontate partendo dalle loro differenze. Negli ultimi mesi si è parlato a lungo di un accostamento che sembra inevitabile, quello tra i due show creati da Julian Fellowes: noi invece siamo qui a cercare di spiegarvi perché, secondo noi, paragonare The Gilded Age a Downton Abbey significa non averle capite. Per niente.
Da una parte abbiamo una delle serie televisive più apprezzate (anche se non quanto dovrebbe) della televisione britannica, vincitrice di svariati Emmy e Golden Globe, uno show cult entrato nell’immaginario collettivo come il simbolo della società inglese, quel prodotto al quale è impossibile approcciarsi senza una tazza di tè fra le mani. Dall’altra abbiamo una serie appena sbocciata, un ritratto profondo e brutale dell’America di fine ottocento con tutti i suoi sfarzi e le sue contraddizioni. Il fatto che la mente geniale dietro entrambe le produzioni sia inglese è irrilevante, perché con tutte le associazioni del caso che si possono fare è impossibile non rendersi conto di quanto Downton Abbey e The Gilded Age siano profondamente diverse.
Per sei stagioni abbiamo seguito le vicende della famiglia Crawley: l’abbiamo vista affrontare la Prima Guerra Mondiale e l’avvento delle prime modernità, abbiamo seguito appassionatamente gli intrecci, lo sboccio dei diversi amori e il susseguirsi della loro storia e anche quando siamo stati costretti a salutarli non ci hanno mai lasciato del tutto. Perché Downton Abbey può apparire tremendamente posh se non la si conosce, ma ha avuto il grande pregio di coinvolgere un pubblico diversificato fin dall’inizio: dai ragazzi giovani, così affascinati da un mondo lontano anni luce da ciò che conoscono, ai loro nonni, felici di potersi immergere anche solo per un’ora in un ambiente che ricordava i loro tempi ormai andati. Il tutto condito da un irresistibile humor tipicamente inglese. Downton Abbey può avere le sue pecche ma è da considerare un capolavoro di scenografia, costumi e ambientazione. E anche se, come dice la nostra amata Lady Violet, “volessimo trovare un senso non lo cercheremmo nell’aristocrazia inglese“, noi questo circo sfarzoso e sfavillante l’abbiamo sempre voluto seguire. Anche quando i colpi di scena di Downton Abbey ci hanno distrutto.
Poi è arrivata The Gilded Age. Non ha nemmeno senso dire di aver avuto aspettative che poi sono state deluse, perché la premessa iniziale da cui parte il nuovo show di Julian Fellowes è proprio questa: lasciare l’Inghilterra ben lontana, attraversare l’Atlantico e costruire una narrazione completamente nuova. Così, senza nemmeno rendercene conto, ci troviamo catapultati in nuovo mondo, una New York piena di fumo e brulicante di sconvolgimenti sociali a seguire le vicende di Marian, costretta a trasferirsi dalle zie Ada e Agnes dopo la morte del padre. Le due aristocratiche sorelle, al di là del cognome che condividono, non potrebbero essere più diverse: se Ada riesce pian piano ad aprirsi all’avvento di una nuova era Agnes si aggrappa stoicamente alle vecchie tradizioni, a quella vita di sfarzi e lussi che i soldi di famiglia le garantiscono. L’evidente contrapposizione tra il vecchio e il nuovo si vede fin dalla prima puntata ed è il punto cardine attorno al quale ruota la serie. Dall’altra parte della strada vive infatti la famiglia Russell, composta dal magnate delle ferrovie George, dalla moglie Bertha e dal figlio Larry: una famiglia dove il denaro non viene ereditato ma è frutto di lavoro e sacrifici, l’emblema di quei “nuovi ricchi” di fronte ai quali l’aristocrazia di New York sembra non voler avere niente a che fare. E quindi inizia un processo di isolamento, di porte sbattute in faccia e di battutine fatte dietro le spalle: sempre con il sorriso sul viso, ovviamente, perché “l’educazione viene prima di tutto”.
Viene quindi spontaneo chiedersi da dove arrivi, o meglio da dove parta, questo paragone tra due serie tv che fanno parte della stessa famiglia pur non avendo nulla a che fare l’una con l’altra. Downton Abbey e The Gilded Age non sono due facce di una stessa medaglia, ma due monete da un dollaro e una sterlina venute fuori dallo stesso portafoglio. I collegamenti ci sono, com’è giusto che sia: abbiamo due visioni distinte, i nobili al piano di sopra e i domestici che si occupano di far andare avanti la casa (le cui vicende si intrecciano continuamente). Abbiamo la ricchezza, lo sfarzo, le cene di gala, i balli, la nobiltà. Possiamo addirittura godere di un barlume dell’umorismo sferzante di Lady Violet nel personaggio interpretato da Christine Baranski. Eppure The Gilded Age riesce dove Downton Abbey non mette becco, e non per una sua mancanza ma perché irrilevante ai fini della sua storia: racconta molto bene tutte le controversie di un periodo storico dove, sotto i profondi cambiamenti sociali e l’avvento di nuove tecnologie (come i primi esperimenti di Edison, resi in maniera spettacolare nello show), si nascondono gravi problemi dietro una patina dorata. Come Mark Twain insegna, ci troviamo davanti ad un altro teatro, l’ennesima parata spettacolare dietro alla quale si celano ancora diverse insidie.
In conclusione, possiamo dire che entrambe le serie ci hanno regalato tanto: l’unica pecca di The Gilded Age è quella di essere arrivata a raccogliere l’eredità di una serie che ha fatto la storia dei period drama in costume. Un accostamento è naturale, un paragone risulta forzato. Anche perché la verità è una sola: date a Julian Fellowes una penna, un pezzo di carta e un’ambientazione d’altri tempi e vi regalerà qualcosa di meraviglioso.